Israele, pausa dall’orrore
L’accordo per un cessate il fuoco provvisorio a Gaza, raggiunto tra Hamas e Israele con la mediazione egiziana e del Qatar, potrebbe portare almeno un breve sollievo alla popolazione palestinese sotto il ferocissimo assedio sionista. La tregua favorirà uno scambio parziale di prigionieri ed è il risultato in primo luogo delle crescenti pressioni internazionali, ma anche interne, sul regime di Netanyahu. In Occidente sono in molti ad avere espresso un cauto ottimismo a proposito del momentaneo stop ai combattimenti, ma non sembrano esserci elementi concreti per sperare in una soluzione pacifica di lunga durata. La “pausa umanitaria” potrebbe anzi essere sfruttata da Israele per riorganizzare le forze e ricalibrare l’offensiva genocida contro la Resistenza e la popolazione palestinese nella striscia.
Gaza: Biden e il genocidio
L’assedio genocida di Israele contro la popolazione palestinese nella striscia di Gaza ha dato un altro colpo fatale alla credibilità degli Stati Uniti e dei loro alleati come baluardo di democrazia, pace e stabilità per l’intero pianeta. A Washington continua tuttavia a dominare l’illusione della superiorità morale dell’Occidente e della popolarità dei suoi “valori” di fronte alla presunta minaccia di una sorta di reincarnazione dell’“asse del male”, contro cui sarebbe in corso una guerra dall’importanza vitale sui fronti ucraino e mediorientale. Questa dottrina che ribadisce la supremazia incontrastata degli USA è stata rilanciata in un editoriale di Joe Biden apparso nei giorni scorsi sul Washington Post, anche se il risultato è apparso piuttosto una conferma del declino irreversibile di una potenza che non ha più nulla da offrire se non guerra e distruzione – oltre a ipocrisia e “doppi standard” – di fronte alla decomposizione del sistema di governance internazionale che ha segnato gli ultimi sette decenni.
Argentina, la notte oscura
Il voto in Argentina sconcerta e preoccupa. Non tanto e non solo per il destino che attende il paese gaucho finito nelle mani di un personaggio che non passerebbe nessuna selezione improntata sul Q.I., quanto per la capacità di attrazione delle sue follie su un Paese che, benché preso nella rete del peronismo agonizzante, seppur orfano della memoria dei suoi anni peggiori, quelli vissuti col terrore nelle vene ed il sangue nelle strade, è dotato di sufficiente cultura e storia politica da saper distinguere un originale da un pazzo, un social-confuso da un fascista, per giunta immerso in un delirio mistico che in Europa sarebbe affrontato con un TSO.
L’Argentina conferma che quando il sistema imperiale a trazione anglosassone avverte rischi di smottamento, è pronto ad ogni risorsa pur di mantenere il comando. Ovviamente, Massa non avrebbe rappresentato un problema per l’establishment finanziario e militare del Paese, ma per gli Stati Uniti ciò non era sufficiente, perché la vittoria del peronista avrebbe confermato l’adesione ai BRICS, autentico incubo per gli USA. La candidatura di Milei è stata allora costruita e sostenuta dal sistema di potere argentino e statunitense. Dopo il Brasile, il prossimo ingresso della Bolivia, del Venezuela e del Nicaragua, i segnali di agitazione che arrivano dalla Colombia, la conferma dell’Argentina nel blocco alternativo all’impero unipolare avrebbe determinato una definitiva inclinazione per la Regione e per il Centroamerica, dove sempre più paesi svolgono consultazioni formali e informali allo scopo di verificare le condizioni di accesso ai BRICS. Facile immaginare le conseguenze, con l'ovvia riduzione progressiva dell’ingerenza USA sul resto del continente. Scansato il rischio in Ecuador, la partita decisiva era a Buenos Aires e gli addetti alla reazione non si sono fatti trovare impreparati.
Svezia-NATO, il sì di Erdogan
Il tira e molla di Erdogan sulla ratifica dell’adesione della Svezia alla NATO potrebbe essere arrivato al capolinea con il voto, previsto probabilmente per la giornata di giovedì, della commissione Esteri del parlamento di Ankara sulla candidatura di Stoccolma. L’iter legislativo per l’approvazione era stato avviato il mese scorso dal presidente turco, ma i dubbi erano tornati a emergere in seguito al complicarsi del quadro internazionale. Anche se Erdogan ha assunto una posizione ufficialmente molto netta contro Israele, e di conseguenza gli Stati Uniti, in merito alla strage in corso a Gaza, gli interessi strategici e militari della Turchia dovrebbero come previsto prevalere. Resta da verificare quale contropartita riceverà Erdogan dal definitivo via libera all’ingresso della Svezia nel Patto Atlantico.
USA, la crociata di Trump
A meno di un anno dalle elezioni americane, il candidato con le maggiori probabilità di entrare alla Casa Bianca nel gennaio 2025 continua a essere l’ex presidente repubblicano, Donald Trump. Nelle recenti uscite pubbliche, quest’ultimo è tornato a spingere sulla retorica anti-comunista e a ostentare inclinazioni ultra-autoritarie, con più di un riferimento diretto ai topoi hitleriani. Il pericolo dello scivolamento nel fascismo degli Stati Uniti non è una questione di questi mesi, come hanno dimostrato, tra l’altro, i precedenti della stessa presidenza Trump. Tuttavia, i preparativi per l’instaurazione di una dittatura più o meno “soft” da parte dell’ex presidente sembrano avvenire alla luce del sole e nel silenzio quasi assoluto della stampa ufficiale e, soprattutto, dei principali responsabili dell’apparizione e del ritorno prepotente del “fenomeno Trump”, ovvero l’amministrazione Biden e il Partito Democratico americano.
Nel fine settimana in New Hampshire, Trump è stato protagonista di uno dei discorsi più aggressivi degli ultimi tempi, nel quale ha minacciato esplicitamente l’arresto o l’eliminazione fisica dei suoi rivali politici. Verso la fine del suo intervento ha pronunciato l’affondo più preoccupante con la promessa di “sradicare i comunisti, i marxisti, i fascisti e i teppisti radicali di sinistra che vivono come parassiti dentro i confini del nostro paese” e che rubano le elezioni. Secondo Trump, coloro che rientrano nella sua descrizione farebbero di tutto, “legalmente o illegalmente, per distruggere l’America e… il Sogno Americano”.
USA e Cina, tregua a San Francisco?
Il vertice appena iniziato a San Francisco dei paesi della Cooperazione Economica Asia-Pacifico (APEC) sarà monopolizzato, per lo meno a livello mediatico, dal faccia a faccia previsto per mercoledì tra il presidente americano Biden e il suo omologo cinese, Xi Jinping. L’incontro avverrà nel pieno della crisi in Medio Oriente e del peggioramento delle prospettive della “guerra per procura” americana in Ucraina. Due eventi che, assieme alle conseguenti ripercussioni economiche, stanno contribuendo ad accelerare il ridimensionamento della posizione internazionale degli Stati Uniti, a vantaggio principalmente proprio della Cina. Alla luce di queste dinamiche, sono in molti ad aspettarsi un relativo ammorbidimento delle posizioni di Washington nei confronti di Pechino, anche se dal summit APEC con ogni probabilità non arriveranno indicazioni di un cambiamento significativo nella traiettoria delle relazioni bilaterali sul medio e lungo periodo.
Ucraina, game over
Le dottrine militari sono diverse, così come le strategie per il loro impiego. Quelle studiate nelle accademie delle grandi potenze si basano su concetti di guerra convenzionale e strategie per l'uso del nucleare, mentre i piccoli Paesi sviluppano dottrine e modelli militari adeguati alle loro dimensioni e al loro territorio, alla loro storia e cultura, persino alle loro idiosincrasie. Ma ciò che accomuna tutte le dottrine militari, senza eccezioni, è l'uso del termine "controffensiva". Con esso si intende un contrattacco finalizzato alla riconquista delle posizioni perdute e alla successiva parziale ritirata del nemico, al fine di liberare il territorio e rilanciare l'azione strategica.
L'Ucraina rappresenta un'eccezione, sia in termini di terminologia che di significato. La controffensiva ucraina è infatti diventata una nuova offensiva russa. Secondo il New York Times, "la Russia si è impadronita di ulteriore territorio, soprattutto nel nord-est, e ora controlla quasi 320 chilometri quadrati in più di territorio ucraino rispetto all'inizio dell'anno".
Il rischio Iran
Non consideratela una frase ad effetto, quando il presidente iraniano Ebrahim Raisi avverte che, i «crimini sionisti a Gaza» avranno «conseguenze extraregionali». Lo ha ribadito l’altro giorno nel corso di un colloquio con il primo ministro indiano Narendra Modi. Gli ha fatto eco sua moglie, la scrittrice Jamileh Alamolhoda che - informa il Tehran Times - ha inviato una lettera alle consorti di quaranta leader europei, chiedendo loro di condannare Israele perché ha ucciso donne e bambini palestinesi, facendo leva su «una politica di paura e di odio per raggiungere i suoi sinistri obiettivi nei territori occupati».
Ucraina, il tunnel di Zelensky
Il drastico peggioramento della situazione nella guerra con la Russia sta alimentando un feroce conflitto interno al regime ucraino, con il presidente Zelensky in rotta di collisione sempre più aperta coi vertici militari e, in particolare, il comandante delle forze armate, generale Valery Zaluzhny. Lo scontro non promette nulla di buono per l’ex attore comico, né per le prospettive a breve e medio termine del suo paese. Un’ulteriore escalation è inoltre facilmente prevedibile, soprattutto dopo il recente probabile assassinio di uno stretto collaboratore di Zaluzhny e l’annuncio della cancellazione delle elezioni della prossima primavera da parte dello stesso Zelensky.
USA, il sorpasso di Trump
La decisione di ripresentare Joe Biden come candidato alle presidenziali del prossimo anno potrebbe costare molto cara al Partito Democratico americano. Anche se il probabile sfidante per la Casa Bianca sarà un Donald Trump che, denunce di brogli a parte, era risultato uno dei più impopolari presidenti uscenti alla fine del suo mandato, le prospettive per l’ultra-ottuagenario Biden e il suo partito tra dodici mesi appaiono decisamente cupe. I segnali d’allarme tra i vertici democratici si stanno moltiplicando, soprattutto alla luce della disastrosa gestione delle crisi in Ucraina e in Medio Oriente. Due recentissimi autorevoli sondaggi di opinione hanno poi aggravato la situazione per il presidente, dato in affanno in quasi tutti gli stati americani tradizionalmente decisivi per gli equilibri elettorali.
Gaza: genocidio, bugie e impotenza
Nessun cessate il fuoco e nemmeno una pausa momentanea. Il genocidio palestinese va avanti e oltre al tritolo a Gaza gli tocca anche la propaganda. Sì perché la visita di Blinken a Sharon è stata una messinscena studiata per rafforzare il reciproco gioco delle parti, tra gli USA alleati fedeli ma ragionevolmente preoccupati del contesto internazionale e Israele, ansiosa solo di chiudere la partita con Hamas. Una recita pensata per placare la comunità internazionale, mandare messaggi alle capitali mediorientali e a fini interni, a Washington come a Tel Aviv.
Negli USA la comunità arabo-statunitense è furiosa con Biden: un sondaggio dell’Arab American Institute rivela che solo il 17% è pronto a rieleggere Biden (nel 2020 il 59% era con lui): è una comunità piccola ma importante in stati in bilico come Michigan e Pennsylvania. In Israele, invece, l’odio per Netanyahu è trasversale a società civile e militari e un minuto dopo il cessate il fuoco Netanyahu dovrà dimettersi; cerca di risalire la corrente dandosi la fama di sterminatore di palestinesi, ma comunque vada la sua carriera politica è finita.
Ucraina, l’inizio della fine
L’esplosione della guerra in Medio Oriente sembra avere dato il colpo di grazia alle speranze ucraine di tenere alto il livello di appoggio dell’Occidente per proseguire in un conflitto disperato contro la Russia. Gli aiuti militari ed economici vengono approvati sempre con maggiore difficoltà, se non boicottati del tutto, e le forze in termini di risorse umane che il regime di Zelensky è in grado di mettere assieme ormai ridotte all’osso. In questo scenario, il crollo definitivo dell’Ucraina appare vicino. L’unica alternativa, prima respinta fermamente ma ora in discussione anche a livello pubblico, è l’avvio di un qualche negoziato di pace con Mosca. USA ed Europa starebbero infatti lavorando proprio a questa opzione, come ha confermato un articolo, fino a poco tempo fa semplicemente impensabile per la galassia “mainstream”, apparso sabato sul sito del network americano NBC News.
Netanyahu e la soluzione finale
L’obiettivo primario di Israele nella campagna criminale in corso a Gaza è l’espulsione totale della popolazione palestinese dalla striscia. Non sono soltanto i proclami dei leader del regime sionista e le azioni delle sue forze armate in queste settimane di guerra a dimostrarlo, ma anche alcuni documenti pubblicati recentemente da organi del governo e da enti ad esso molto vicini. L’appropriazione totale delle terre palestinesi si basa sia su teorie al limite del patologico basate sui testi sacri sia sul principio della forza pura e semplice che da decenni viene favorito dall’appoggio garantito allo stato ebraico dagli Stati Uniti e dal resto delle “democrazie” occidentali.
All’interno del regime di Netanyahu sta circolando almeno un piano per portare a termine la pulizia etnica di Gaza e l’occupazione definitiva di questo territorio da parte di Israele. Il giornale israeliano Mekovit ha infatti rivelato nei giorni scorsi il contenuto di uno studio realizzato dal ministero dell’Intelligence, nel quale si raccomanda il trasferimento forzato dei circa 2,3 milioni di palestinesi residenti a Gaza.
Gaza, i crimini e gli errori
L’incursione da terra, cielo e mare dell’esercito israeliano contro Gaza miete vittime civili in misura preponderante. Sono piovute 18.000 tonnellate di tritolo sulla Striscia di Gaza, più o meno 50 tonnellate per chilometro. Bersagli preferiti ogni essere umano, ogni installazione, con particolare predilezione per ospedali e ambulanze. Gli esponenti di Hamas che Tel Aviv dice di voler sterminare sono solo il bersaglio propagandistico, quello reale sono i palestinesi tutti. Lo conferma Dror Eydar, ex ambasciatore israeliano a Roma dal 2019 al 2022, in una trasmissione televisiva: “L’obiettivo è distruggere Gaza”, che definisce “il male assoluto”. Una pulizia etnica, la sostituzione etnica dei palestinesi con gli ebrei. Nulla che non fosse già chiaro, solo detto con rude franchezza, non si sa se involontariamente o no.
L’idea che abita nell’establishment israeliano continua ad essere una e solo una: l’apartheid non è più sufficiente per i nuovi appetiti del sionismo, serve l’eliminazione fisica dei palestinesi. Dati i costi al metro quadro dell’area, estirpata ai palestinesi e con modesti investimenti, Gaza può diventare un’area residenziale di Tel Aviv. Dunque farli fuori tutti affinché Israele possa accaparrarsi tutto. Quello che già c’è e quello che potrebbe esserci.
Il genocidio in diretta
Occorre interrogarsi sulle conseguenze sul piano internazionale della situazione a Gaza. Il massacro in corso è senza precedenti. Come accennato dagli esperti delle Nazioni Unite c’è il rischio di un genocidio. Sembra applicabile alla fattispecie la Convenzione sul genocidio del 1948, il cui art. II definisce come segue la fattispecie di genocidio: “Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; (…).”.
Gaza e la Giordania in bilico
I regimi arabi alleati dell’Occidente sono sottoposti da oltre due settimane a enormi pressioni da parte delle rispettive popolazioni, unanimemente solidali con la causa palestinese e sempre più infuriate contro il regime sionista per il massacro quotidiano di civili innocenti nella striscia di Gaza. Tra i paesi in maggiore difficoltà alla luce dell’escalation del conflitto non c’è solo l’Arabia Saudita, che fino a tempi recentissimi sembrava vicina alla normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele, ma anche e soprattutto la Giordania. Il regno hashemita del sovrano Abdullah II si trova infatti a dover gestire una vera e propria polveriera in seguito all’operazione “Alluvione Al-Aqsa” lanciata da Hamas il 7 ottobre scorso, con ripetute manifestazioni di protesta contro Washington e Tel Aviv e richieste dilaganti di revocare l’accordo di pace del 1994 con lo stato ebraico.
Israele, il dilemma di Gaza
Mentre il numero ufficiale dei morti sotto le bombe di Israele a Gaza ha superato quota 5.000, il governo del primo ministro Netanyahu sembra essere vicino a ordinare un’invasione nella striscia che rischia di trasformarsi in un massacro ancora più sanguinoso sia per i civili palestinesi sia per i militari del regime di occupazione. La reazione criminale al blitz lanciato con successo da Hamas e Jihad Islamica il 7 ottobre scorso ha messo lo stato ebraico in una situazione senza vie d’uscita facilmente percorribili. Un’operazione di terra appare di fatto inevitabile per raggiungere l’obiettivo fissato da Tel Aviv, vale a dire l’eliminazione delle forze della “Resistenza” palestinese, ma comporta allo stesso tempo rischi considerevoli che, dietro l’ostentazione di forza del regime sionista, agiscono in qualche modo da freno alle manovre militari.
USA, l’impotente superpotenza
Annullati i vertici bilaterali con Giordania e Autorità palestinese, snobbati i colloqui da parte saudita, poste serie condizioni da parte dell’Egitto, bloccate le trattative per gli accordi di Abramo, in aperto scontro con le commissioni ONU sui diritti umani, spaccata la UE che sfiducia la sua presidente dall’eccessivo ardore filo-israeliano, la miglior alleata degli USA in Europa, assegnazione del ruolo di protettore e garante dei palestinesi a quell’Iran che Biden voleva isolare da tutti, palestinesi in primo luogo: la missione di Biden in Medio Oriente è stata un fiasco totale.
E certo non ha aiutato prima far giungere due portaerei nucleari, con 20.0000 marines a bordo e nuovi aiuti militari per Tel Aviv e poi porre il veto alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza a firma russa che chiedeva un immediato cessate il fuoco mentre si cercava il dialogo con i paesi arabi e l’Autorità palestinese. Difficile immaginare maggiore rigidità ideologica mista a idiozia politica.
Gaza, i complici dell’orrore
Il bombardamento israeliano di un ospedale a Gaza nella giornata di martedì è stato finora il culmine della campagna militare al limite del genocidio del regime di Netanyahu contro i palestinesi e ha subito provocato un’ondata di indignazione e proteste nei paesi arabi e tra le popolazioni di quelli occidentali. Per la gravità del bilancio ancora parziale – circa 500 civili sono stati massacrati, di cui poco meno della metà bambini – questo episodio potrebbe diventare un punto di svolta di un conflitto sempre più vicino a esplodere in una guerra regionale che, oltre a risultare disastrosa per numero di vittime, minaccia di trasformarsi in un boomerang sia per gli Stati Uniti che per lo stato ebraico.
Polonia, la rivincita di Bruxelles
Dopo otto controversi anni al governo, il partito polacco nazionalista Diritto e Giustizia (PiS) dovrà probabilmente passare la mano all’opposizione europeista di centro-destra guidata dall’ex premier, nonché ex presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk. L’attuale partito di governo rimane nettamente la prima forza politica in Polonia, ma sarà difficilmente in grado di trovare partner di coalizione sufficienti da mettere assieme una nuova maggioranza in parlamento. L’eventuale passaggio di consegne a Varsavia potrebbe risultare burrascoso, con qualche riflesso sulle vicende della guerra russo-ucraina. L’orientamento anti-russo non verrà tuttavia modificato, anche se potrebbero cambiare i principali riferimenti esteri del prossimo esecutivo, a tutto favore della Germania e dell’Unione Europea.
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