F-16 e Bakhmut, l’agonia di Zelensky
La saga delle armi da garantire al regime ucraino per sopravvivere all’offensiva russa si è arricchita in questi giorni dalle discussioni presumibilmente in corso in sede NATO per fornire a Zelensky aerei da guerra F-16 di produzione americana. In occasione del vertice dei G-7 a Hiroshima la questione è stata presa seriamente in considerazione dagli sponsor di Kiev, anche se, come per i precedenti equipaggiamenti promessi e poi consegnati, i dettagli dell’operazione devono essere ancora definiti. La caduta/liberazione definitiva nel fine settimana della città di Bakhmut/Artemovsk rende tuttavia ancora più dubbia l’utilità dei caccia realizzati da Lockheed Martin, il cui arrivo in Ucraina rappresenterebbe comunque una nuova ulteriore escalation delle provocazioni nei confronti di Mosca.
Zelensky implora da tempo l’invio di F-16 e, almeno ufficialmente, la richiesta era stata al centro dei recenti faccia a faccia tra il presidente ucraino e i leader di Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania. Il nuovo oggetto del desiderio del regime neo-nazista di Kiev è diventato così un altro finto argomento di discussione in Occidente, con l’unico governo che conta in merito alle decisioni strategiche sull’Ucraina, ovvero quello americano, con ogni probabilità già convinto a dare il via libera al trasferimento dei velivoli.
G7, la nave dei folli
Riuniti a Hiroshima in un vertice autoreferenziale, i cosiddetti grandi della terra, il cui metro di grandezza ormai è soprattutto il rispettivo debito, hanno affermato che il mondo continuerà ad andare come vogliono loro e nei tempi che vogliono loro. Non è mancata l'ennesima parata di Zelensky, solito abbigliamento e simboli nazisti al braccio, solita interpretazione del testo redatto dalla Casa Bianca e solita telenovela intitolata "la controffensiva".
Sull'Ucraina è stata lanciata una fatwa imperiale: niente negoziati, business per la ricostruzione, guerra a oltranza e nuove sanzioni, perché le migliaia passate finora non funzionano. Simbolicamente l’emissione del comunicato finale ha coinciso con l’annuncio ufficiale di Mosca della presa di Bakhmut, centro strategico per il controllo del Donbass.
Nuove sanzioni. Anche se solo 50 dei 193 Paesi della comunità internazionale applicano sanzioni contro Mosca, il G7 annuncia che ci saranno sanzioni anche per chi non le applica. Inutili i tentativi di coinvolgere India, Sudafrica e Brasile nell'operazione: pur non condividendo l'invasione dell'Ucraina, non ritengono necessario schierarsi contro la Russia, alla quale riconoscono delle ragioni. In ogni caso, non hanno alcuna intenzione di rallentare il loro sviluppo commerciale a favore dell'impero statunitense.
Ma se le sanzioni precedenti non hanno funzionato, le nuove sanzioni funzioneranno? No, i dati mostrano che i sanzionatori sono le vittime finali delle sanzioni. I sanzionati, peraltro, hanno già adottato tutte le contromisure che ne hanno attutito l'impatto, compensando con l'aumento delle entrate derivanti da nuove rotte commerciali e finanziarie. Il PIL della Russia nel 2022-2023 è cresciuto più della media dei PIL occidentali e il debito di Mosca è trascurabile rispetto a quello di Stati Uniti e Giappone, per non parlare di quello italiano, che ha raggiunto il 147% del PIL.
Credere che l'India, il Brasile o il Sudafrica, il Pakistan o l'Arabia Saudita possano decapitare le loro economie e genuflettersi a favore dell'impero, abdicando al loro ruolo di potenze emergenti per sostenere la crociata russofoba, è frutto di analisi fantasiose nate da un ego collettivo ipertrofico ma ormai privo di qualsiasi realtà.
Ecuador, tra impeachment ed elezioni
Quito. Una parte dell’Assemblea chiede l’impeachment per il Presidente Lasso, che per non essere messo sotto accusa scioglie il Parlamento e convoca nuove elezioni, con la Corte Costituzionale che dovrà emettere una sentenza che indichi se il percorso istituzionale è conforme o no alla Magna Carta.
I fatti visibili e invisibili della politica ecuadoriana hanno smesso da tempo di essere sorprendenti, ma sono ancora disgustosi e sono un esempio di ciò per cui i falsi paladini della verità e della giustizia della destra ecuadoriana stanno perdendo il sonno.
Quando il governo di Lasso iniziò nel 2021, con la complicità senza precedenti e pubblicamente nota del Consiglio Nazionale Elettorale, era chiaro a quale circolo economico e politico appartenesse. Il suo passato era pubblico e riprovevole, poiché quella stessa cerchia ha avuto un ruolo di primo piano in una delle pagine più desolanti della storia economica del Paese: la vacanza delle banche, la gigantesca migrazione dei settori che non potevano farsi carico delle perdite e dei debiti e la successiva dollarizzazione. L'orifizio finanziario della ruota economica (le banche) ha qui un legame evidente fin dal XX secolo, quindi non dovrebbe sorprendere più di tanto.
USA-Siria, diplomazia segreta
Il governo degli Stati Uniti continua ufficialmente a respingere qualsiasi iniziativa per allentare le sanzioni imposte alla Siria nonostante il paese mediorientale in guerra dal 2011 sia oggetto negli ultimi mesi di una vera e propria riabilitazione all’interno del mondo arabo. Da Washington sono arrivate finora solo dure critiche per quei paesi che hanno cessato gli sforzi diretti al cambio di regime a Damasco e intrapreso la strada della riconciliazione. Privatamente, tuttavia, è possibile che l’amministrazione Biden intenda tenere aperta una via d’uscita dalla crisi siriana e, a questo scopo, avrebbe già intrattenuto negoziati segreti e in maniera diretta con il governo del presidente Assad.
Ucraina, le armi della “pace”
La visita appena conclusa in Italia, Germania, Francia e Gran Bretagna del presidente ucraino Zelensky ha offerto l’ennesimo spettacolo degradante fatto di leader europei pronti a competere tra loro per garantire al regime di Kiev quante più armi possibili e, di fatto, prolungare un conflitto che rischia pericolosamente di scivolare in una conflagrazione continentale. La trasferta dell’ex comico è stata segnata ovunque da conferenze stampa e apparizioni sui media ufficiali che, come si è potuto tristemente osservare anche in Italia, hanno amplificato a dismisura la vergognosa propaganda filo-ucraina già in atto. Nell’immediato, l’obiettivo del viaggio a Occidente è stato ancora una volta di mendicare armi in previsione della fantomatica “controffensiva di primavera”, con particolare enfasi sugli aerei da combattimento per cercare di riguadagnare il controllo dei cieli ucraini finora saldamente nelle mani della Russia.
Il tour dell’elemosina
Sono diverse le considerazioni che possono essere fatte a commento della visita in Europa del Presidente ucraino Zelensky. E’ stato ricevuto con un dispositivo di sicurezza privo di ogni senso e di qualsivoglia motivazione a parte quella di solleticare l’ego infinito dell’attore, confortato nel rifiuto netto da parte dei paesi del G7 a considerare un tempo massimo entro il quale o l’Ucraina vince sul campo oppure si procede sul tavolo diplomatico.
Turchia, sfida al sultano
Il presidente in carica Recep Tayyip Erdoğan affronterà tra meno di due settimane il primo ballottaggio dalla sua ascesa al potere in Turchia più di due decenni fa. Il 28 maggio andrà in scena la sfida con il leader dell’opposizione, Kemal Kiliçdaroğlu, a lungo dato come favorito dai sondaggi, talvolta addirittura come possibile vincitore già al primo turno. A sfiorare il successo immediato è stato invece Erdoğan, il quale, nonostante la flessione rispetto alle passate elezioni, continua a conservare una certa popolarità nel paese, non da ultimo grazie all’inserimento in pianta stabile della Turchia nelle nuove dinamiche strategiche ed economiche in corso nello spazio eurasiatico.
E se Putin perdesse Erdoğan?
Mentre una sconfitta di Erdoğan nelle elezioni di domenica potrebbe riorientare la politica estera turca verso occidente e mettere a dura prova le relazioni tra Ankara e Mosca, i diffusissimi sentimenti anti-americani in Turchia rimarranno una sfida per l'opposizione.
Durante la cerimonia del 27 aprile scorso, che ha segnato la consegna del combustibile nucleare di fabbricazione russa alla nuova centrale nucleare di Akkuyu in Turchia meridionale, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato il proprio sostegno all’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan in vista delle prossime elezioni presidenziali del 14 maggio.
I due capi di Stato hanno partecipato all'evento in videoconferenza, durante la quale Putin ha consegnato a Erdoğan – chiamato ad affrontare l’elezione per lui più dura di sempre – questo generoso regalo pre-elettorale. Ma, nonostante l’insolita manifestazione pubblica di approvazione, Putin ha effettivamente molto da perdere se Erdoğan dovesse essere sconfitto?
Ritorno tra le braccia di Washington
Siria: la sconfitta di Washington
Il ritorno in maniera formale della Siria nella Lega Araba segna non soltanto il reintegro a tutti gli effetti di Damasco nelle dinamiche diplomatiche regionali dopo quasi dodici anni, ma anche il fallimento delle manovre degli Stati Uniti e dei loro alleati per rovesciare con la violenza il governo di Bashar al-Assad e imprimere una svolta strategica anti-iraniana in Medio Oriente. La decisione è stata presa durante un vertice a porte chiuse nel fine settimana in Egitto e spiana la strada alla partecipazione da parte del legittimo governo siriano alla riunione della Lega Araba prevista per il prossimo 19 maggio in Arabia Saudita.
I droni di Langley
A pochi giorni dall'abbattimento di due droni sul tetto del Cremlino, né gli ucraini né i loro padroni politici (Regno Unito e Stati Uniti) hanno rivendicato la responsabilità dell'azione. Esistono tre versioni dell'accaduto: quella ucraina, che, come per i precedenti attacchi, nega e indica negli oppositori di Putin i responsabili; quella statunitense, che ribadisce l'estraneità della Casa Bianca; quella russa, che accusa Stati Uniti e Ucraina di aver cercato di assassinare il presidente Vladimir Putin.
La versione ucraina non sorprende: segue pedissequamente lo stesso copione già utilizzato in precedenti attacchi "non supportati" da parte statunitense. Basti ricordare quello al ponte di Crimea, l'assassinio di Darya Dugina e - cosa strategicamente più significativa - il sabotaggio del gasdotto North Stream. Per ognuno di questi attacchi, la macchina propagandistica della NATO, cioè l'intero mainstream occidentale, ha cercato di trasmettere la presunta responsabilità diretta della Russia: e così Dugina è stata uccisa da presunti avversari di suo padre, il gasdotto è stato sabotato per dispetto e ora i droni sul Cremlino sarebbero opera degli oppositori di Putin. Insinuando così che siamo tutti idioti e che i russi, oltre a essere incapaci di difendersi, siano autolesionisti.
Ucraina, i droni e la controffensiva
Con l’avvicinarsi della data ancora sconosciuta della controffensiva ucraina, le analisi in Occidente del possibile esito dell’attesa operazione che Zelensky dovrebbe ordinare stanno diventando sempre più pessimistiche. Più precisamente, tra la propaganda e le ricostruzioni di fantasia circa l’andamento della guerra, cominciano a circolare in maniera relativamente diffusa valutazioni più realistiche delle possibilità delle forze armate di Kiev. Per una serie di fattori, determinati dalla situazione venutasi a creare sul campo dopo oltre tredici mesi di guerra, le prospettive ucraine non sono esattamente incoraggianti e l’eventuale azione che potrebbe essere lanciata a breve rischia di risolversi in un nuovo e inutile bagno di sangue.
Siria-Hezbollah, la svolta di Riyadh
Gli stravolgimenti degli equilibri strategici in Medio Oriente procedono a passo spedito nonostante l’opposizione degli Stati Uniti a dinamiche che minacciano la loro posizione dominante nella regione. I nuovi scenari trovano il proprio motore soprattutto nelle iniziative dell’Arabia Saudita, legate in buona parte al rafforzamento delle posizioni di Cina e Russia in Asia occidentale, e incidono in primo luogo sui rapporti con l’Iran e sulla situazione siriana. Gli sviluppi più recenti in questa direzione sono stati la conferenza di Amman proprio sulla Siria e la notizia del possibile dialogo in corso tra i sauditi e Hezbollah in Libano.
Carlson: la vendetta del regime
La scena mediatica degli Stati Uniti è stata sconvolta questa settimana dal licenziamento improvviso di uno dei più popolari giornalisti televisivi americani, il conduttore di Fox News Tucker Carlson. Populista, demagogo, xenofobo, trumpiano sono alcuni degli attribuiti non esattamente lusinghieri che vengono di solito accostati alla figura di Carlson, a lungo l’opinionista conservatore di maggiore rilievo del network di (estrema) destra della famiglia Murdoch. Più recentemente, Carlson aveva però anche dato ampio spazio a giornalisti e commentatori indipendenti, inclusi quelli collocabili politicamente a sinistra, introducendo nel dibattito ufficiale dominato dalla stampa “corporate” una prospettiva più critica del comportamento del governo americano e degli affari internazionali in genere.
Nicaragua nel centro del mondo
Le visite a Managua del ministro degli Esteri Russo e del presidente dell'Agenzia cinese per la cooperazione internazionale allo sviluppo, Luo Zhaohuii, hanno riproposto con forza il Nicaragua al centro dello scacchiere politico e strategico della regione centroamericana e ne hanno proiettato il ruolo politico sullo scacchiere internazionale più ampio.
Ucraina, dubbi sulla controffensiva
L’attesa controffensiva delle forze armate ucraine continua a rimanere avvolta nel mistero e molti indizi che trapelano sulla stampa ufficiale sembrano prospettare sia una débacle da parte del regime di Kiev sia il venir meno dell’appoggio occidentale nel prossimo futuro. La pubblicazione quasi certamente coordinata nei giorni scorsi di due articoli, rispettivamente sul New York Times e sulla testata on-line Politico, lascia intendere che a Washington ci si stia in qualche modo preparando all’inevitabile sconfitta ucraina. Come questo scenario sarà presentato alla comunità internazionale e in che modo verrà gestita la prossima fase del conflitto Russia-NATO resta però ancora tutto da verificare.
11 settembre: i segreti della CIA
Sospetti molto pesanti sulle possibili collusioni tra la CIA e alcuni responsabili degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 sono emersi da tempo tra le pieghe delle indagini ufficiali. Alcuni documenti processuali diventati recentemente di dominio pubblico fanno però luce su un aspetto dalle implicazioni esplosive, ovvero che due dei dirottatori erano stati forse reclutati dalla stessa agenzia di Langley nel quadro di un’operazione ultra-segreta condotta assieme ai servizi segreti sauditi. Il collegamento era arrivato all’attenzione degli investigatori dell’FBI dopo i fatti del 2001, ma l’indagine era stata insabbiata dall’intervento di alti funzionari della CIA e dello stesso “Bureau”.
Pentagono, la talpa improbabile
Dal giorno dell’arresto del 21enne Jack Teixeira, con l’accusa di avere sottratto e pubblicato un numero imprecisato di documenti riservati del Pentagono, la stampa ufficiale negli Stati Uniti e nel resto dell’Occidente ha dato per certo che il giovane membro dell’aeronautica della Guardia Nazionale del Massachusetts sia l’unico responsabile dell’accaduto. Qualche commentatore al di fuori del circuito dei media “mainstream”, in particolare tra quelli con una carriera alle spalle nella comunità dell’intelligence americana, ha però sollevato parecchi dubbi sulla versione offerta all’opinione pubblica. Molti elementi della vicenda sembrano infatti non quadrare e gli aspetti poco chiari della ricostruzione ufficiale alimentano oltretutto i sospetti sulle ragioni reali della pubblicazione non autorizzata di documenti che, in ogni caso, appaiono in larga misura autentici.
Sudan, la guerra dei generali
Gli scontri a fuoco tra le due principali fazioni delle forze armate del Sudan sono proseguiti nella giornata di lunedì causando un numero di vittime civili che, secondo alcune stime, sfiora ormai quota duecento. Il conflitto mette di fronte l’esercito regolare e le Forze di Supporto Rapido (RSF), ai cui vertici siedono rispettivamente il numero uno e il numero due del regime militare uscito dal doppio colpo di stato del 2019 e del 2021. A loro volta, nonostante le ragioni di ordine interno alla base della disputa armata, le due parti sono appoggiate da diverse potenze straniere che da tempo competono per esercitare il maggior controllo possibile sul paese strategicamente posizionato sulle sponde del Mar Rosso.
Ucraina, gli affari di Zelensky
L’eroe dell’Occidente Zelensky sarebbe coinvolto in prima persona in uno schema corruttivo per appropriarsi di una parte dei fondi inviati a Kiev dal governo di Washington, teoricamente destinati a sostenere lo sforzo nel conflitto contro la Russia. Questo dettaglio sul presidente ucraino e la sua cerchia di potere è stato rivelato mercoledì da una nuova esclusiva del veterano giornalista investigativo americano, Seymour Hersh. L’altro elemento che emerge dall’articolo pubblicato sul suo account ospitato dalla piattaforma Substack è lo scontro in atto nelle stanze del potere a Washington, risultato in primo luogo delle scelte sull’Ucraina di Biden e che mette una contro l’altra la Casa Bianca e la “comunità dell’intelligence” a stelle e strisce.
Secondo la CIA, la cifra su cui Zelensky e il suo entourage hanno finora messo le mani ammonterebbe almeno a 400 milioni di dollari. Il denaro intercettato viene appunto dagli Stati Uniti e, secondo le fonti di Hesh, è utilizzato per acquistare carburante nientemeno che dalla Russia. Un funzionario dei servizi segreti USA ha spiegato che “Zelensky compra diesel a basso costo dai russi” e “a pagare siamo noi”, così che “Putin e i suoi oligarchi guadagnano [anch’essi] milioni” da questo traffico.
Il persistere di rapporti commerciali con la Russia, da cui vengono incassati profitti grazie agli “aiuti” occidentali, testimonia a sufficienza del cinismo e della doppiezza dell’ex comico diventato presidente. Di questo commercio più o meno clandestino c’era già stata peraltro notizia relativamente a uno dei paesi NATO più ferocemente anti-russi, quanto meno a livello ufficiale, ovvero la Lettonia. Uno scandalo era infatti esploso proprio nei giorni scorsi nel mini-stato baltico dopo che una TV locale aveva raccontato dell’approdo nel porto di Riga di tre petroliere provenienti da San Pietroburgo a partire dall’inizio dell’anno. Secondo i giornalisti che ne avevano parlato, il carico valeva complessivamente oltre 100 milioni di euro e viaggiava con falsi documenti rilasciati in Kazakistan.
È probabile quindi che le due rivelazioni siano da ricondurre alle stesse fonti americane, evidentemente a corto di pazienza per la piega che ha ormai preso l’intera vicenda ucraina. Sempre Hersh afferma inoltre che “svariati ministeri a Kiev fanno letteralmente a gara per creare società di facciata”, attraverso le quali vengono sottoscritti contratti con mercanti privati di armi in tutto il mondo. In questo modo, una parte degli equipaggiamenti militari inviati all’Ucraina dai paesi NATO viene rivenduta all’estero e sulle transazioni i funzionari ucraini incassano cospicue tangenti.
Molte di queste società hanno sede in Polonia e in Repubblica Ceca, ma alcune sono state create anche in Israele e nei paesi del Golfo Persico. Un esperto americano di commercio internazionale ha confidato a Hersh di ritenere probabile l’esistenza di ulteriori società di questo genere alle Isole Cayman e a Panama e che numerosi americani sono probabilmente coinvolti nel traffico.
I livelli di corruzione a Kiev avrebbero ormai raggiunto quelli clamorosi dell’Afghanistan nel periodo dell’occupazione americana. Per il governo di Washington si tratta d’altra parte del prezzo da pagare per tenere sotto il proprio controllo un governo fantoccio in un paese dove ha provocato una guerra per procura, vale a dire coltivando una classe politica indigena ai propri ordini acconsentendo in cambio che si arricchisca con affari illegali favoriti dagli stessi Stati Uniti.
Visto però il rischio che il comportamento di questa vera e propria cleptocrazia diventi di dominio pubblico e finisca per screditare un regime promosso come un baluardo di democrazia e libertà contro l’aggressione russa “non provocata”, i padroni di Washington ritengono di dovere talvolta intervenire. Così, lo scorso gennaio il direttore della CIA, William Burns, era volato a Kiev per riferire a Zelensky dei malumori che circolavano tra i funzionari del suo governo e, soprattutto, tra i generali ucraini. Questi ultimi, raccontano le fonti di Hersh, erano furiosi perché il presidente si stava prendendo una fetta del denaro proveniente dall’Occidente maggiore di quella che essi tenevano per sé.
Burns aveva poi presentato una lista di 35 generali ed alti ufficiali corrotti che gli Stati Uniti volevano fossero messi da parte. Alcuni giorni più tardi, Zelensky avrebbe licenziato dieci ufficiali tra quelli più noti sulla lista americana, assieme a vari membri degli staff di alcuni ministeri, nel quadro di una finta “operazione anti-corruzione”. Per il resto, le cose sono rimaste uguali. Anche il ministro della Difesa, Aleksey Reznikov, avrebbe conservato il suo incarico, forse per intercessione americana, nonostante fosse inizialmente circolata la notizia di un suo imminente licenziamento per avere fatto la cresta sulle forniture di cibo destinato alle truppe impegnate al fronte.
Il comportamento di Zelensky e del suo regime, assieme alla condiscendenza dell’amministrazione Biden, sono il sintomo, secondo quanto scrive Seymour Hersh, di una “mancanza di leadership” che avrebbe portato a una “rottura completa” del rapporto di fiducia tra la Casa Bianca e alcune sezioni della comunità dell’intelligence americana. Un altro fattore che ha causato frizioni tra le due parti è l’attitudine e la rigidezza mentale delle due personalità più importanti nella formulazione della politica estera dell’attuale governo: il segretario di Stato, Anthony Blinken, e il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Jake Sullivan.
Gli anonimi confidenti di Hersh sostengono che il presidente, Blinken e Sullivan “vivono in un modo diverso” da quello dei diplomatici, militari e agenti di intelligence di carriera assegnati alla Casa Bianca. Blinken e Sullivan, si legge nell’articolo di Hersh, “non hanno esperienza, né giudizio né integrità morale”. Tutto ciò che sanno fare, in fin dei conti, è “mentire”. La spaccatura descritta dentro l’apparato di potere degli Stati Uniti è diventata insanabile dopo la pubblicazione a febbraio sempre da parte di Hersh della rivelazione sul gasdotto Nord Stream, la cui distruzione sarebbe stata decisa dal presidente Biden senza consultare la comunità dell’intelligence.
Gli oppositori interni della Casa Bianca lamentano anche una carenza di programmazione strategica in merito al conflitto in Ucraina. Un esempio di ciò è la decisione di Biden di impiegare due brigate rispettivamente in Polonia e in Romania, entrambe a pochi chilometri dal confine ucraino, ufficialmente in risposta alle operazioni militari russe. In totale, le due divisioni americane sono composte da oltre 20 mila uomini, ma, secondo le fonti di Hersh, “non ci sono prove che anche un solo esponente di rilievo dell’amministrazione [Biden]” sappia realmente quale sia lo scopo di questa forza.
A Washington rimangono quindi molti dubbi sul fatto che le divisioni si stiano ad esempio esercitando assieme ad altri contingenti NATO nell’ottica di un possibile impiego in territorio ucraino nel caso l’Occidente dovesse decidere di affrontare direttamente la Russia. In questo caso, però, la Casa Bianca dovrebbe fare chiarezza, dal momento che le regole d’ingaggio attualmente in vigore prevedono il divieto di attaccare le forze russe, a meno che i militari americani non siano essi stessi attaccati dalla Russia.
Un’altra rivelazione di Hersh sembra confermare la natura pericolosamente illusoria delle aspettative americane dalla guerra in Ucraina. Il capo di Stato Maggiore, generale Mark Milley, un paio di mesi fa avrebbe commissionato ai membri del suo staff una bozza di trattato di pace da proporre al Cremlino una volta che la Russia sia stata sconfitta sul campo. Le prospettive per Kiev continuano però a non essere incoraggianti ed è anzi probabile che Mosca sarà in grado di dettare le condizioni di un’eventuale cessazione delle ostilità.
Questo particolare può essere ricondotto a un articolo pubblicato mercoledì dal Washington Post, che, basandosi su documenti di analisi inediti del servizio di intelligence militare USA (DIA), ha riportato un’opinione circolante a Washington sull’improbabilità di una fine della guerra nell’anno in corso. I combattimenti potrebbero quindi continuare almeno fino al 2024, anche nell’improbabile ipotesi che Kiev riesca a riconquistare “una parte consistente di territorio” attualmente occupato dalla Russia.
Pentagono: la verità sull’Ucraina
La pubblicazione di decine di documenti riservati del dipartimento della Difesa americano continua a essere il tema centrale nel dibattito internazionale sulla guerra in Ucraina. L’analisi del materiale diffuso in rete si è arricchita con la rivelazione della presenza sul campo nel paese dell’ex Unione Sovietica di un centinaio di uomini delle forze speciali di vari paesi NATO. Nel complesso, le notizie che si ricavano sono tutt’altro che sorprendenti per chi abbia qualche frequentazione di fonti di informazione alternativa. I documenti contribuiscono però quanto meno a smentire una parte della propaganda e delle menzogne su cui si è basata la campagna che in Occidente ha accompagnato la guerra in Ucraina fin dall’inizio dell’invasione russa nel febbraio dello scorso anno.
Si è discusso molto in rete sull’autenticità del materiale trafugato probabilmente da un analista del Pentagono, così come sulla possibile penetrazione nei sistemi informatici del governo USA da parte di avversari come la Russia. Tra le analisi più dettagliate e convincenti reperibili nel circuito dei commentatori indipendenti, che a stragrande maggioranza sostengono la veridicità dei documenti e la tesi del “inside job”, c’è senza dubbio quella proposta dall’analista militare che, sulla piattaforma Substack, si nasconde dietro lo pseudonimo di Big Serge.
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