Interviste

Le parole e i pensieri di chi è parte o accanto a Cuba

Dennys Guzmán Pérez

Intervista a Dennys Guzmán Pérez, direttore del Centro Studi Europei all’Avana

di Catia Funari e S. Russo

D: Lei è direttore del Centro Studi Europei all’Avana. Di che cosa si occupa questo Centro e qual’é la sua utilità all’interno del sistema socio-politico, economico ed anche culturale di Cuba?

R: Il Centro Studi Europei dell’Avana fu fondato il 4 ottobre del 1974. Inizialmente nacque come centro per lo studio delle problematiche dell’Europa Occidentale, quando ancora esisteva il campo socialista e vi era una differenza tra Paesi socialisti e Paesi Occidentali. Poi si creò un gruppo di lavoro che si occupava in particolare dell’aera dei Paesi socialisti. Infine, dopo la caduta dell’Unione Sovietica divenne ciò che è oggi: il Centro Studi Europei.

Dennys Guzmán Pérez
Dennys Guzmán Pérez

Il Centro dipende dal Comitato Centrale del Partito Comunista di Cuba, e in particolare dal Dipartimento delle Relazioni Internazionali, proprio per le sue caratteristiche. Studiamo l’Europa e le sue interrelazioni, la sua situazione economico-sociale, le relazioni transatlantiche, (un aspetto questo, molto importante soprattutto per Cuba, mi riferisco alle relazioni tra Europa e Stati Uniti), e le sue relazioni con altri Paesi del mondo e in particolare con l’America latina.

Studiamo anche le principali correnti politiche europee, come la corrente comunista, socialista, liberale, quella dei verdi, naturalmente in funzione della disponibilità del numero dei nostri ricercatori. All’interno del dipartimento di studi dei partiti politici, c’è un gruppo di lavoro che si occupa dei movimenti sociali, come i No Global, dei forum sociali. Il nostro scopo insomma é quello di aprire una finestra sull’Europa. Io dico che così come gli europei, gli spagnoli, sono venuti a casa nostra a scoprire il nostro mondo, anche noi vogliamo sapere cosa succede in Europa. Ogni due anni, il nostro Centro organizza una conferenza internazionale; momento di interscambio tra accademici, politici, tra tutti coloro che si occupano del tema europeo, e in cui si trattano tutte le problematiche relative all’Europa, ma anche i suoi rapporti con l’America latina, con l’Africa, l’Asia.

Abbiamo una rivista che si chiama “Revista de estudios europeos” che esce ogni quattro mesi, in spagnolo e in inglese, in cui vengono pubblicati gli studi dei nostri ricercatori, ma anche interventi di altri collaboratori, amici, professori, intellettuali. Il Centro possiede una biblioteca molto imponente ed aggiornata, di cui si avvalgono i nostri ricercatori per i loro studi, ma anche gli studenti per esempio per le loro tesi sul tema europeo. Il nostro Centro è direttamente collegato con il Dipartimento delle Relazioni Internazionale del Partito, a cui fornisce costantemente informazioni sugli avvicendamenti europei ed è molto utile anche al Ministero degli Esteri, come a tutte le Istituzioni che ci interpellano. Noi inviamo loro informazioni che non hanno alcun carattere segreto e che si possono trovare anche in quelle pubblicazioni che non hanno una grande tiratura per la specificità dell’oggetto. Il Centro Studi Europei è importante in quanto fonte d’informazione ed analisi sul Vecchio Continente, non solo per le Istituzioni, ma per chiunque si interessi all’Europa. Chiunque può venire da noi e trovare l’informazione che sta cercando.

D: Lo scorso 11 settembre, nel Palazzo delle Convenzioni, all’Avana, si sono aperti i lavori del XIV Movimento dei Paesi Non Allineati. Quali sono gli strumenti che concretamente questo Movimento, nato nel 1961 a Belgrado, può offrire ai suoi Stati Membri per migliorare le loro condizioni e contrapporsi all’unilateralismo degli USA?

R: L’origine del Movimento dei Paesi non Allineati risale all’epoca in cui esistevano i due blocchi. Anche se il non allineamento assoluto non esiste, può comunque esistere una politica, quella dei Paesi del Terzo Mondo, che non sia necessariamente allineata al 100% ad una parte. E’ possibile un movimento genuino, anche perché ci sono molti interessi comuni nella maggior parte di questi Paesi del Terzo Mondo. Questo Movimento permette ai suoi Stati Membri di formare un blocco, poiché se li sommiamo tutti vediamo che superano di gran lunga quelli del Primo Mondo, geograficamente, numericamente e in tanti altri aspetti. Credo che non sia lo stesso se il Terzo Mondo agisce in modo dispersivo o in un modo che sia il più coerente possibile. Sono convinto che se il Movimento aveva un senso durante il periodo del bipolarismo, oggi la sua funzione è più che mai importante. È fondamentale che i Paesi in via di sviluppo agiscano uniti e non isolati gli uni dagli altri.

Uno degli obiettivi di questo Vertice è quello di dare al Movimento non solo un’importanza politica, che indubbiamente in tutti questi anni ha sempre avuto, con i suoi alti e bassi, ma soprattutto qualcosa di concreto. E Cuba può farlo. Prendiamo per esempio il tema dell’educazione. Ci sono milioni di persone che non sanno né leggere, né scrivere. Cuba ha dimostrato prima di tutto che si può alfabetizzare. Lo ha fatto con il suo popolo ed oggi lo sta dimostrando in Venezuela, in Bolivia e in altre regioni dell’America Latina, con un nuovo metodo -diverso da quello utilizzato nell’Isola nel 1961 che dovette alfabetizzare più di un milione di cubani ereditato dal capitalismo- che si chiama “Yo sí puedo”, e che con il supporto di mezzi audiovisivi, permette alle persone di imparare a leggere e a scrivere in poco tempo. Penso anche al tema della salute. Molte persone nel Terzo Mondo muoiono per mancanza di medici, di farmaci, e Cuba ha dimostrato che si può avere uno scambio utile.

Far parte di questo movimento ha una sua utilità concreta, perché un Paese appartenente al Movimento dei Paesi Non Allineati può concretamente ricevere medici o maestri e al tempo stesso inviare studenti per prepararli. Questo è il senso che Cuba ha voluto dare a questo XIV Vertice del Movimento dei Paesi Non Allineati. E non solo sul piano dell’educazione e della salute, ma anche sul piano della Cooperazione. Come la cooperazione Sur Sur. Noi crediamo che vi siano grandi possibilità per cui la cooperazione Sur Sur andrà consolidandosi sempre di più, senza dover ricorrere ai metodi del neoliberismo e a quel tipo di politica che a volte “coopera” ma che ti costa cara e non contribuisce al vero sviluppo dei popoli.

D: Ci può dire qualcosa riguardo al piano energetico che Cuba ha messo a punto e che ha chiamato “Rivoluzione Energetica”?

R: La Rivoluzione Energetica a Cuba ha una grande importanza. Da una parte dobbiamo risparmiare energia, dall’altra dovevamo mettere mano al vecchio sistema di erogazione della elettricità che dipendeva fondamentalmente da centrali termoelettriche obsolete che davano vita a frequenti black out, danneggiando l’economia e creando una certa irritazione tra la popolazione. Insomma, bisognava creare un sistema che non dipendesse esclusivamente da queste grandi centrali termoelettriche molto vulnerabili, che per esempio con un ciclone vengono giù e compromettono l’erogazione di energia elettrica di intere province.

Il nuovo sistema si avvale infatti di piccoli gruppi elettrogeni collocati in tutto il territorio nazionale, che richiedono molto meno combustibile e il cui eventuale guasto è circoscritto alla relativa zona, senza colpire vaste aree del Paese. Tra l’altro, quando è stato partorito questo progetto di rinnovamento dell’impianto di erogazione dell’energia elettrica non abbiamo pensato solo a Cuba. Fidel già da tempo afferma che il mondo deve risparmiare energia, perché l’energia fossile si esaurirà e ancora non è stata trovata un’alternativa che dia una soluzione definitiva al problema.

D: Un commento sulla elezione da parte di 135 Paesi, di Cuba come membro del Consiglio dei Diritti Umani.

R: Il fatto che Cuba sia stata eletta con 135 voti da membri della Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite è stato lo schiaffo più grande che si potesse dare al governo statunitense e a quelli europei. Dico questo perché Cuba, portata sul banco degli imputati, ogni anno a Ginevra, dagli Stati Uniti con il sostegno dell’Europa, incredibilmente, quando il voto è segreto, viene eletta. E in questa occasione gli USA e l’Europa hanno fatto il possibile per evitare la sua elezione, ma non ci sono riusciti. Questa è una grande lezione per tutti coloro che si domandano come sia possibile che una Nazione continuamente accusata di violazione dei diritti umani stia dentro questa Commissione. La risposta è perché i Paesi di America latina, Africa, Asia, che l’hanno eletta, sanno perfettamente che quello che si dice su Cuba è lontanissimo dalla verità. E questa elezione dimostra il prestigio e l’autorevolezza internazionale del mio Paese.

Gli Stati Uniti non sono stati eletti pur considerandosi i paladini e i difensori dei diritti umani nel mondo. Tutto questo dimostra che se c’è un Paese che ha fatto una Rivoluzione non solo per sconfiggere una tirannia, ma per costruire un sistema in cui l’essere umano potesse ricevere salute, educazione e dignità, questo è Cuba. Questa elezione di Cuba nella Commissione dei Diritti Umani è un messaggio di speranza ed incoraggiamento: sapere che non tutto può sempre andare come lo impone l’Impero.

D: In Italia, per via di una informazione distorta e manipolata, si ha l’idea che Cuba sia divisa in due, da una parte gli anziani, che hanno fatto la rivoluzione e che militano nel partito e dall’altra i giovani, che hanno altri bisogni ed ambizioni diverse.Vorrei sapere come un giovane decide di diventare militante, quali sono il percorso, la formazione, lo studio che lo avvicinano al partito e a che età avviene.

R: A Cuba tutto questo comincia sin da bambini, quando iniziano ad andare a scuola. Il percorso che seguono non è virtuale ma assolutamente reale e concreto. Già sin da piccoli, a seconda dell’età e delle loro esigenze, gli si insegna ad analizzare il loro contesto. Ogni quattro cinque anni, ha luogo un Congresso e già questi bambini cominciano a tenere i loro primi discorsi e sentirli parlare è veramente sorprendente. La loro capacità di analisi dei problemi relativi alla scuola e i loro suggerimenti per migliorarla, sono sorprendenti. Tutto questo è l’inizio della loro formazione non solo scolastica ma anche politica. E già da lì si evidenziano le loro inclinazioni. Questi bambini crescendo frequentano le scuole superiori. Nella scuola superiore c’è la “Federación Estudiantil de la Enseñanza Media”. Poi viene la “Federación Estudiantil Universitaria, che esiste da prima della Rivoluzione. È una struttura che risale a Julio Antonio Mella. Tutte queste sono scuole di formazione politica ed ideologica dei giovani cubani.

Quando poi un giovane ha già superato una certa età, può entrare a far parte della “Unión de los Jóvenes Comunistas”, che ha già un carattere più selettivo. I giovani che entrano a far parte di questa Organizzazione sono quelli che si sono maggiormente distinti tra i ragazzi delle precedenti Federazioni. Non tutti quelli che sono rivoluzionari entrano a far parte della “Unión de los Jóvenes Comunistas. I giovani che ne fanno parte possono militarci anche fino ai trent’anni, con responsabilità “di base” come diciamo noi. E poi possono essere avviati alla direzione dei Municipi, della Provincia, della Nazione, a seconda delle qualità personali e delle attitudini di ognuno di loro. A questo punto la “Unión de los Jóvenes Comunistas” può proporre al Partito Comunista i suoi migliori giovani. Mentre nei Paesi dell’ex Unione Sovietica non vi era differenza tra un’organizzazione di massa ed un’organizzazione politica, da noi questa differenza esiste, perché per far parte del Partito devi superare varie selezioni e devi guadagnarti un certo prestigio, un certo valore di fronte agli altri compagni, non può essere chiunque. Si può entrare nel Partito non solo seguendo la via delle Federazioni Giovanili, ma anche per meriti propri.Io conosco giovani che non hanno militato nelle organizzazioni della Gioventù ma che sono comunque riusciti ad entrare nel Partito perché si sono comunque distinti. Si può entrare nel Partito anche attraverso l’Assemblea dei Lavoratori. Quindi vi sono varie possibilità di accesso al Partito, ma tutte autentiche e a stretto contatto con la realtà quotidiana del nostro Paese. Vi sono molti anziani che non sono contrari alla Rivoluzione ma che non hanno militato nel Partito, semplicemente perché non gli interessava e giovani che decidono di dedicarsi alla causa direttamente e in prima persona. Così come vi sono giovani che scelgono di vivere la loro vita senza far parte del Partito. E questo dimostra la assoluta libertà che ogni cittadino cubano ha di decidere se militare o meno, perché questo non è un obbligo ma esclusivamente una scelta personale che va rispettata. Pertanto non si possono fare classifiche sugli anziani militanti e i giovani privi di interesse.

NOTE BIOGRAFICHE

Dennys Guzmán Pérez: Laureato in Scienze Politiche all'Università dell'Avana. Diplomático, è stato ambasciatore della Repubblica di Cuba in Svezia, Norvegia, Danimarca, Islanda e Polonia. Specializzato nelle tematiche politiche europee, dal 2001 direttore del Centro Studi Europei all’Avana.

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Frei Betto

Intervista al teologo e scrittore brasiliano Frei Betto

di S. Russo

In occasione dell’incontro dibattito su “Il Brasile, dalla dittatura a Lula”, con il giornalista Gianni Minà ed il domenicano brasiliano, teologo e scrittore Frei Betto, svoltosi il 27 marzo presso l’ambasciata del Brasile, abbiamo avuto l’opportunità di fare un paio di domande a quest'ultimo.

D: Sig. Betto, secondo Lei, riguardo al caso dei cinque cittadini cubani che dal 1998 sono detenuti nelle prigioni degli Stati Uniti e condannati con capi d’accusa ad oggi ancora mai dimostrati, vi è stato un cambiamento tra la politica dell’attuale presidente democratico degli Stati Uniti d’America Barak Obama, e quella dell’ex presidente repubblicano conservatore George W. Bush?

R: Bisogna dire che con l’attuale amministrazione Obama non vi è ancora stata nessuna novità significativa, ma c’è ancora la speranza che il nuovo Presidente comprenda che quella dei Cinque eroi cubani, è una detenzione ingiusta, illegale, ingiustificata a cui bisogna mettere fine, anche perché Obama ha l’autorità per farlo. C’è una grande speranza sia a Cuba che in tutta l’America latina che l’attuale presidente degli USA riesca a risolvere questa tremenda ingiustizia, dal momento che questi cinque uomini si trovavano negli Stati Uniti per evitare atti di terrorismo, come effettivamente sono riusciti a fare per anni, mentre altri individui, dei veri terroristi, circolano liberamente negli Stati Uniti. Occorre invertire questa situazione e Obama deve dimostrare di meritare il premio Nobel per la Pace.

Frei Betto
S. Russo, Frei Betto, P. Petriaggi - Roma, 27/03/2006

D: A questo proposito, Lei crede che l’appello per la liberazione dei Cinque da parte di 10 Premi Nobel, come Rigoberta Menchú, Dario Fo, Adolfo Pérez Esquivel, José Saramago, ed altri, possa in qualche modo influire positivamente su Obama, dal momento che anche lui è appunto Premio Nobel per la Pace 2009?

R: Io credo di sì, Obama non può non ascoltare i suoi “pari”, persone che come lui sono state premiate, persone responsabili, meritevoli, giuste, con autorità morale. Obama deve unirsi a loro e riconoscere che è una profonda ingiustizia continuare a mantenere in prigione i Cinque eroi cubani.

D: Dunque Lei è ottimista, è fiducioso?

R: Sì, sono fiducioso.

D: Sig. Frei Betto, se Lei fosse un cittadino italiano o europeo, sostenitore del sistema cubano, cosa farebbe per contrastare in qualche modo la campagna mediatica contro Cuba che in questi giorni si è scatenata dopo il decesso del detenuto Orlando Zapata?

R: Credo che la cosa migliore sia parlare dell’ingiustizia che si compie su Cuba. Che un detenuto che fa lo sciopero della fame sia a rischio, tutti noi lo sappiamo, anch’io ho fatto lo sciopero della fame per 36 giorni durante la mia detenzione sotto al dittatura militare in Brasile. Sappiamo che rischiamo la vita perché non ci si alimenta più. I medici cubani hanno fatto tutto il possibile per salvare la vita di quell’uomo, purtroppo non ce l’hanno fatta. Ma quando era primo ministro la Tatcher, 4 militanti dell’I.R.A. sono morti a causa dello sciopero della fame e nessuno ha detto nulla. Questo è puro cinismo, la stampa vuol far diventare Zapata un martire della controrivoluzione cubana. Cuba è l’unico Paese dell’America latina che garantisce la vita ai suoi 11 milioni di abitanti. A Cuba non ci sono esecuzioni extragiudiziarie, non ci sono desaparecidos, non ci sono bambini, o famiglie che vivono in strada, non c’è mafia. Pertanto dobbiamo rispettare la sovranità e l’autodeterminazione di quel Paese.

 

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Hernando Calvo Ospina

Intervista a Hernando Calvo Ospina, giornalista e scrittore

di C. Funari e S. Russo

D: Che tipo di difficoltà ha dovuto affrontare per scrivere il suo libro “Dissidenti o mercenari”, mi riferisco ai suoi contatti con certi ambienti, necessari per le sue ricerche e per ottenere informazioni utili al suo libro?

R: Io ho sempre dichiarato di essere un uomo di sinistra, che il mio cuore batte a sinistra, proprio per questo molte persone si sono chieste come sia potuto andare a Miami e vivere accanto a questa gente. Comunque non è la prima volta che faccio questo tipo di lavoro, fa parte della mia coscienza politica e umana, ho voluto farlo e per questo ho dovuto cambiare il mio linguaggio, dimenticare la parola compagni, alcuni termini politici tipici delle persone di sinistra.

È molto facile entrare in quel tipo di ambiente a Miami, perché quando queste persone si sentono al centro dell’attenzione ti accolgono senza problemi. Io andavo in veste di giornalista della stampa europea, li trattavo amichevolmente e condividevo le loro idee politiche e i loro punti di vista, tutto questo ha molto facilitato il mio lavoro.

Hernando Calvo Ospina
Hernando Calvo Ospina

D: L’idea di frequentare questi terroristi mi ha molto colpito. Leggendo il libro ho immaginato voi compagni insieme a quelle persone. Non deve essere stato facile.

R: Sì, effettivamente era molto angosciante e faticoso mantenere quella finzione e far credere che la pensassi come loro, io che sono per la vita. Stare con loro e frequentare luoghi come per esempio la sede della FNCA (Fondazione Nazionale Cubano-Americana) o andare nei loro campi di addestramento è stato molto pesante. Come anche essere consapevole del fatto che se vieni scoperto sai quello che ti succederebbe…Giornalista o meno, sai che distruggerebbero la tua vita.

Era molto stressante perché dovevo stare attento a non mettere in pericolo le persone che collaboravano con me. Non sono quasi mai andato in albergo, ero quasi sempre ospite in case e se la gente di Miami mi avesse scoperto anche i miei collaboratori avrebbero passato dei guai. Per questo era importante prendere sempre degli appuntamenti in luoghi lontani dai miei compagni. Per fortuna negli Stati Uniti la tecnologia funziona benino e i cellulari funzionano molto bene. Insomma la cosa più pesante era usare il loro linguaggio, affermare che Fidel Castro fosse il peggio del peggio e cercare di proteggere i miei compagni che hanno collaborato con me e che ancora oggi vivono a Miami e per fortuna stanno bene.

D: Dopo la pubblicazione del libro, che sicuramente è una denuncia contro il terrorismo e l’attività controrivoluzionaria, in ogni caso un libro a favore di Cuba, qual’è stata la reazione nel suo ambiente di lavoro, del mondo del giornalismo.

R: Il libro è uscito in un momento in cui, se oggi esiste un rifiuto per la posizione di Cuba, alla fine degli anni ’90, questo era molto più forte. Il libro è già stato tradotto in dieci lingue. La grande stampa francese lo ha accolto come parte della propaganda castrista, dicevano che il libro era stato finanziato da Fidel Castro, che io ero un agente di Fidel Castro e in due conferenze, una a Madrid e l’altra nel sud della Francia, alcune donne mi hanno insultato, aggredito e picchiato.

Naturalmente l’unico modo di difendermi è stato correre. Sono ormai una persona bollata, non ho alcuna possibilità di lavorare con i mezzi di informazione francesi. Collaboro con Le Monde Diplomatique che rispetto molto e credo sia l’unico mezzo d’informazione che mi rispetta, ma non ho alcun rapporto di lavoro con nessun tipo di mezzo d’informazione, è impossibile. Per fortuna ho mia moglie che mi aiuta economicamente e comunque il mio libro ha venduto, certo non come quelli che scrivono contro Cuba, ma sicuramente posso andare a dormire con la coscienza a posto perché la mia attività è coerente con quello in cui credo e non mi vendo per un piatto di minestra.

D: Nel mondo esistono molti comitati a favore della liberazione dei Cinque cubani, lei crede che la loro attività aiuterà a far avere un processo più obiettivo, non di parte?

R: Io penso che la decisione del Tribunale di Atlanta sia una conseguenza del lavoro di formichine di questi comitati. Perché è un lavoro di formichine? Perché nessun mezzo d’informazione importante lo ha trattato a parte Le Monde Diplomatique e The New York Times, e quest’ultimo a pagamento. Ma al di là dell’attività dei comitati questo tema è totalmente sconosciuto al grande pubblico, credo che il 99% della gente non conosca questa vicenda. Credo che la perseveranza del popolo cubano nel non perdere nessuno spazio utile a denunciare la situazione dei Cinque compagni cubani, qualunque sia il Paese, ha dato come risultato la sentenza di Atlanta e quindi la possibilità di ottenere una vera revisione del caso.

Il punto è che le leggi nordamericane, con un qualunque altro caso, in virtù della sentenza del Tribunale di Atlanta, avrebbero già dovuto rivederlo, ma siccome gli accusati sono cubani, stanno pagando per questo, perché essere cubani e stare con la rivoluzione cubana è considerato un peccato. In ogni caso penso che il lavoro di solidarietà con i Cinque che tutti voi state facendo darà dei risultati come è appena successo con la decisione di Atlanta.

D: Qual è la situazione oggi in Colombia?

R: Della Colombia si ha solo l’immagine di un territorio di narcotrafficanti, l’origine di tutti i mali. Ma la verità è che i narcotrafficanti sono solo una parte di una problematica molto più vasta. I narcotrafficanti fanno ormai parte del sistema. I narcotrafficanti di oggi sono i contrabbandieri di caffè dei primi anni del XX secolo. Oggi, le persone più ricche della Colombia sono i grandi contrabbandieri di caffè di una volta. Il vero problema della Colombia è la lotta di classe, che si scontra con uno Stato storicamente violento come pochi, discriminatorio come pochi e che è stato molto bravo nel determinare chi fosse il nemico interno. Già nel 1930, l’oligarchia colombiana aveva persino anticipato lo stesso Pentagono americano nella messa a punto di strategie contro i ribelli, per reprimere gli operai che avevano appena cominciato a formare i primi sindacati e partiti di sinistra. Ed è stato il primo Paese in America latina ad unirsi alla campagna statunitense contro gli oppositori degli anni ’60 per arrestare la rivoluzione cubana in America latina.

Questa è una storia che si è voluta coprire con la questione del narcotraffico. Si dice che la violenza in Colombia provenga soprattutto dal narcotraffico, ma è falso. La violenza prodotta dal narcotraffico non raggiunge il 10%. Neanche nel suo periodo più alto, quando ancora era vivo Pablo Escobar, ha mai superato il 15% dei delitti in Colombia. La maggior parte degli omicidi in Colombia oggi sono dovuti alla politica, alla violenza che esercita lo Stato contro i sindacati, contro le organizzazioni delle donne, contro qualunque tipo di organizzazione che si proponga un programma diverso da quello prestabilito. La questione Colombia è grave perché nella pratica è il principale problema di sicurezza che hanno gli Stati Uniti. Se la Colombia si destabilizza, si destabilizza l’intera America latina. Ma questo gli Stati Uniti non lo capiscono. Come non si preoccupano del fatto che se destabilizzano Chávez e la rivoluzione bolivariana, automaticamente anche la Colombia salterebbe per aria. La guerra contro i ribelli in Colombia è poca cosa, non è una “narcoguerriglia” come racconta la stampa internazionale.

C’è da dire che sulle coltivazioni di coca dei narcotrafficanti lo Stato applica imposte altissime. Certo la guerriglia potrebbe anche dire al contadino di non coltivare più la terra con la coca e di piantare patate o banane, ma il contadino prima di tutto deve poter mangiare per sopravvivere. Al contadino non gliene importa un bel niente se gli Stati Uniti o l’Europa fanno usa di coca. Loro sanno solo che agli americani piace molto la cocaina. La guerriglia dunque non può proporre loro un’alternativa perché non è in grado di offrirgliela. Se questa esiste e la guerriglia la proponesse agli Stati Uniti e allo stato colombiano, come ha già fatto, dovrebbero cambiare moltissime cose all’interno del Paese; gli Stati Uniti dovrebbero smetterla di essere così protezionisti con il loro commercio, insomma bisognerebbe creare le condizioni per un commercio più giusto, più equo, ma tutto questo non conviene. Tra l’altro è impossibile che il narcotraffico si esaurisca, primo perché negli USA ci sono milioni di persone tossicodipendenti, che hanno bisogno della cocaina e secondo perché se in questo preciso momento il mercato della cocaina si fermasse la borsa di New York e quella di Miami crollerebbero, soprattutto quella di Miami. Solo il 5% della vendita della droga rientra in Colombia, l’altro 95% rimane negli Stati Uniti e una piccolissima parte in Europa. Ogni volta che si organizza un’operazione repressiva sulla coca in Colombia, negli Stati Uniti il suo prezzo sale alle stelle e questo vuol dire maggiori entrate per le banche. Tra l’altro storicamente gli Stati Uniti hanno utilizzato la droga per scatenare molte guerre.

La guerra in Vietnam è stata finanziata con il traffico d’oppio, la guerra contro i sandinisti con il traffico di cocaina, è così che i cartelli di droga in Colombia hanno acquistato grandezza. Pablo Escobar non è mai stato ricercato perché era un narcotrafficante, ma perché un giorno disse alla CIA: “Non sono più disposto a darvi cocaina perché facciate la guerra ai sandinisti”, e perché cominciò ad attaccare l’oligarchia colombiana. E l’oligarchia in Colombia è sacra, non si tocca. Dunque in Colombia è in atto uno scontro tra due poteri, quello dello Stato tremendamente corrotto - di una oligarchia estremamente rigida, che non lascia alcuna possibilità ad altre forze di esistere in alternativa ai partiti tradizionali - e le forze guerrigliere che hanno un potere reale e che offrono un’alternativa a un certo numero di persone. L’oligarchia colombiana e gli Stati Uniti possono porre fine a questa guerra. Se il governo colombiano desse ai contadini e ai ceti più poveri quello che Cuba possedeva nel momento peggiore del “periodo speciale”, quando non aveva quasi nulla da mangiare, la guerriglia colombiana avrebbe seri problemi nel continuare ad esistere.

Perché anche se a Cuba vi erano difficoltà per mangiare, esisteva comunque l’educazione, la salute e un bicchiere di latte per i bambini. Ed è proprio per ottenere queste cose che il popolo in Colombia si scontra come anche nella maggior parte delle regioni dell’America latina. Se gli Stati Uniti non lo capiscono e non si decidono ad assegnare anche solo il 5% del prodotto interno lordo alla spesa sociale, in modo che tutti possano vivere decentemente, la Colombia si destabilizzerà e se la Colombia si destabilizza anche quasi tutto il resto dell’America latina lo farà. Ma purtroppo gli Stati Uniti sono ciechi, non credo che la situazione migliorerà.

NOTE BIOGRAFICHE

Hernado Calvo Ospina: Giornalista e scrittore colombiano residente in Europa. Ha scritto diversi libri tradotti in varie lingue, tra i quali "Dissidenti o mercenari?" con Katlijn Declercq (ed. Achab), "Cuba: la guerra occulta del Ron Bacardí" (ed. Achab).

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Hernando Calvo Ospina

Ignacio Ramonet

Intervista a Ignacio Ramonet, direttore del mensile francese Le Monde Diplomatique

di C. Funari e S. Russo

D: Il caso dei Cinque cubani detenuti nelle carceri degli Stati Uniti non riguarda esclusivamente i governi cubano e nordamericano. I Cinque oggi si trovano in prigione per voler difendere i principi di libertà, giustizia e sovranità – valori universali, sacri per tutti i paesi del mondo. Non crede che l’Europa dovrebbe riflettere sul fatto che ancora oggi questi principi sono messi in discussione e che per difenderli a volte bisogna patire la prigione come stanno facendo i Cinque?

R: Il caso dei Cinque è semplicemente scandaloso per varie ragioni. Primo, perché da parte dei media europei è in atto un boicottaggio generale, né sui giornali, né alla radio, né in televisione si parla di questa storia. Effettivamente ci troviamo di fronte a un caso totalmente censurato. Secondo, perché stiamo vivendo una fase storica in cui tutti i giorni ci ripetono che la guerra principale è quella contro il terrorismo. Gli USA stanno insistendo sul fatto che bisogna fare la guerra al terrorismo, comunque e dovunque sia. Lo stesso Bush ha detto che chi aiuta il terrorismo, per esempio ospitandolo, è terrorista esattamente come colui che mette una bomba.

Con queste parole il presidente degli Stati Uniti sta legittimando il lavoro dei Cinque, cioè cercare di individuare le organizzazioni che praticano il terrorismo. In realtà, tutto questo dimostra che per gli Stati Uniti e per moltissime altre persone esiste un terrorismo buono, che serve agli interessi degli Stati Uniti e uno cattivo, che attacca gli stessi interessi. E questo le persone di buona volontà non lo possono accettare: il terrorismo è male, sempre.

D: E l’Europa dove sta?

R: L’Europa è assente, bisogna dirlo. Riguardo al caso dei Cinque, l’Europa è schierata con gli Stati Uniti, e in particolare sulle problematiche cubane, l'Europa non vuole considerare la specificità del caso cubano, la specificità del terrorismo sponsorizzato dagli USA contro Cuba. È evidente che è sensibile solo al terrorismo, diciamo, islamico. Al terrorismo internazionale, come oggi viene chiamato questo fenomeno.

Ignacio Ramonet
Ignacio Ramonet

D: Qual’è la differenza tra la politica nei confronti di Cuba del democraticissmo John Kennedy e quella dell’ultra conservatore, reazionario George W. Bush. In fondo è durante l’amministrazione Kennedy che, dal trionfo della rivoluzione, Cuba ha vissuto la sua fase più critica. E non mi riferisco alla crisi di ottobre, ma piuttosto al tentativo di invasione dell’Isola con lo sbarco nella Baia dei Porci.

R: Qui stiamo parlando di storia. E la storia ci dice due cose: il presidente Kennedy quando lancia l’operazione “Playa Girón”, sta lanciando un piano che non ha elaborato la sua amministrazione, ma quella precedente alla sua, l’amministrazione di Eisenhower. Evidentemente Kennedy, essendo un presidente insediatosi da poco, ancora non possiede l’autorità per dissuadere la realizzazione di quella operazione.

Ma possiamo dire che ordina alle forze statunitensi presenti nelle acque circostanti la Baia, in particolare portaerei, di non partecipare allo sbarco. Inoltre oggi sappiamo con certezza che Kennedy voleva mandare un messaggio a Fidel Castro per stabilire un altro tipo di relazione con lui. Abbiamo molte testimonianze che lo dimostrano. Pertanto la posizione di Kennedy anche se quantitativamente sembra più importante, le stesse autorità cubane pensano che, dopo la crisi, con lui si sarebbero potuti stabilire altri tipi di rapporti.

D: Che succederà a Posada Carriles? Se riuscirà a circolare di nuovo liberamente, l’attività terroristica contro Cuba si intensificherà?

R: Credo che sarebbe molto difficile. Posada Carriles ormai è un terrorista in pensione. Ha ottant’anni, ha un cancro alla pelle. Non stiamo parlando di Posada Carriles come persona ma di ciò che rappresenta, cioè di un uomo che ha passato quasi cinquant’anni praticando il terrorismo contro Cuba con l’aiuto degli Stati Uniti e che questo fatto non è riconosciuto, con la complicità di molti paesi come Panama o Messico che ha dato a Posada Carriles il permesso di passare per poter raggiungere gli Stati Uniti. Ricordiamo che Posada Carriles non possiede la nazionalità nordamericana. E comunque io credo che gli USA lo proteggeranno, perché è un loro agente. Forse per gli Stati Uniti la cosa migliore sarebbe che Posada Carriles morisse. Pertanto è possibile che facciano in modo che questo accada.

D: Zapatero da una parte ritira le truppe dall’Iraq, dichiarandosi giustamente contro l’occupazione, e dall’altro a Melilla, antica conquista, intensifica le guardie di frontiera spagnole che possono anche sparare contro i sub-sahariani che tentano di scavalcare il doppio filo spinato. Che ne pensa?

R: Non c’è nessuna relazione tra una cosa e l’altra. Io non credo che il governo abbia dato l’ordine di sparare contro gli immigranti.

D: Ma di rinforzare la guardia sì?

R: Rinforzarla sì, che fa parte di una politica europea che naturalmente noi critichiamo. Il fatto di intensificare il controllo della baia, il fatto di respingere con questa violenza gli immigranti richiama un problema che va oltre Zapatero, perché Zapatero, allo stesso tempo, ha anche concesso permessi di soggiorno a più di 800 000 immigranti. E questa è la contraddizione che la destra rimprovera a Zapatero; cioè di concedere il permesso di soggiorno a 800 000 immigranti spingendo le persone ad entrare in Spagna, attraverso Melilla. Se non concedesse tutti questi permessi non ci sarebbero tutte queste persone che tentato di entrare a Melilla. Ma io credo che ci sia una certa coerenza nel governo di Zapatero, anche se nessuna persona che abbia buon senso può essere d’accordo con questa politica. D’altra parte non si possono aprire le frontiere. Nessun paese responsabile potrebbe aprirle.

D: Aprire le frontiere è una cosa, sparare contro chi cerca di scavalcarle è ben altra. Io ho visto immagini in cui i soldati di Zapatero sparano contro gli immigranti.

R: Non so se li ha visti sparare, forse li ha visti picchiare. Tra l’altro c’è in corso un dibattito su chi sia stato a sparare, se la parte marocchina o quella spagnola. In ogni caso non si può accusare Zapatero di aver ordinato di sparare, affermarlo sarebbe irresponsabile. Zapatero non ha ordinato di sparare. I militari che ha collocato lungo la baia non sono dotati di armi. La polizia è armata, non è la stessa cosa. E la polizia non ha ordini di sparare, ha l’ordine di respingere, altrimenti sarebbe stato un tremendo massacro. Ci sono stati dei morti, credo cinque o sei al massimo. Ma il problema sta nella politica di sicurezza che si sta mantenendo. Una politica che va oltre la politica del governo francese, spagnolo o italiano.

Qual’è la politica dell’Unione Europea nei confronti dell’Africa e dell’immigrazione? Questa politica non è chiara, perché i vari governi non seguono la stessa politica. Bisogna prima di tutto lanciare una massiccia campagna di aiuto all’Africa, che parli del piano Marshall per l’Africa, e metterla in atto. L’Africa non può rimanere così com’è. Se domani in Africa arriva la febbre aviaria che succederà, già in quel continente impera l’AIDS e ogni altro tipo di calamità. Qui in Italia state vivendo l’allarme aviaria e l’Italia è uno dei paesi più ricchi del mondo. Immaginatevi se l’aviaria arrivasse in Nigeria. Ovviamente il virus muterebbe arrivando in Africa e diventerebbe una calamità per il mondo intero. L’idea di abbandonare l’Africa, questo sì che è un crimine orribile. Tutto il resto sono solo delle conseguenze di questo crimine.

D: Lei crede nella politica di Zapatero?

R: La politica di Zapatero presenta due aspetti. Uno che riguarda la società. Io penso che la decisione di ritirare le truppe dall’Iraq sia una risposta ad una richiesta molto forte della società. La questione di concedere il permesso di soggiorno agli immigranti. La questione di rivedere lo statuto della Catalogna, o domani quello Basco. La questione del matrimonio omosessuale. La questione della restituzione dell’archivio alla Catalogna. Tutto questo mi sembra molto positivo. L’altro aspetto della politica di Zapatero riguarda invece la politica economica che è una politica neoliberale, identica a quella di tanti altri paesi e questo merita una riflessione sicuramente più critica.

NOTE BIOGRAFICHE

Ignacio Ramonet: è nato in Spagna nel 1943. Ha studiato semiologia e storia culturale alla Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (Parigi). È attualmente professore di Teoria della Comunicazione all’Università Denis-Diderot di Parigi (Paris VII) e professore associato all’Università Carlos III di Madrid e all’università di San Pietroburgo. È inoltre direttore del mensile francese "Le Monde Diplomatique".

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Josè Galardy Alarcon

Intervista al Col. Josè Galardy Alarcon, membro dell’Unione degli Storici di Cuba

di F. Di Gaspare e M. Papacci

D: Nel nostro paese, l’Italia e in Europa, non si conosce la storia dei 5 compagni cubani condannati per spionaggio da un corrotto tribunale di Miami negli USA: puoi raccontarci quello che è successo veramente?

R: Come tutto il popolo italiano già sa, il nostro popolo è stato aggredito sistematicamente dall’imperialismo nordamericano. Dal mio paese sono partiti verso gli USA gli sbirri e gli assassini della tirannia di Batista sconfitta dal popolo cubano. Il governo nordamericano li ha sempre accolti a braccia aperte e li ha addestrati per aggredire Cuba. Grazie anche ad aiuti e a sporchi giochi economici, molti di questi signori sono diventati miliardari e continuano ad aggredire il nostro paese. Come sapete, questo si è tradotto in voli pirata che hanno bombardato il nostro territorio, colpendo zuccherifici, campi di canna da zucchero, materia prima al trionfo della Rivoluzione, industrie, hanno attaccato i nostri pescatori. Insomma una costante aggressione che continua in altre forme ancora oggi. Come già conoscete, tentarono un’invasione mercenaria che fu sconfitta in 72 ore.

Il nostro governo aveva la necessità di essere informato su queste costanti aggressioni per poterle prevenire, affinché si potessero evitare le morti dei nostri cittadini. Gli atti di terrorismo di questi banditi non sono stati fatti solo a Cuba ma anche sullo stesso territorio degli Stati Uniti. Molte volte il governo Cubano aveva informazioni su quanto stavano preparando questi elementi e avvertiva l’FBI e il governo USA sulla pericolosità di questi terroristi.

A Cuba tutta una serie di compagni si sono offerti volontariamente per andare negli USA e infiltrarsi in questi gruppi terroristici e informare il governo cubano su quanto stavano tramando e poterlo così evitare. Ci sono stati sabotaggi anche nelle aree turistiche e in uno di questi attentati è morto il giovane italiano Fabio DI CELMO. Tra i volontari che si sono offerti per infiltrarsi c’erano i compagni.

Questi 5 compagni furono arrestati il 12 settembre 1998 alle ore 05:30 di mattina dall’FBI di Miami. Immediatamente gli agenti hanno cercato di far tradire Cuba ad ognuno di loro, con false promesse e invitandoli a passare nei loro ranghi. Nessuno di loro ha accettato di tradire la Rivoluzione. Immediatamente hanno confessato che il loro compito era quello di trovare informazioni negli USA sui gruppi terroristici che non solo avevano operato a Cuba ma anche sullo stesso territorio degli Stati Uniti. Ricordiamo che per mano di questi terroristi è stato fatto esplodere un aereo della Cubana de Aviaciòn nel cielo delle Barbados causando la morte di 73 cubani.

Ramon Labañino ci narrò di come furono arrestati e incarcerati, e le prove della flagrante violazione dei diritti umani: “Dal momento che entrammo in carcere, fummo portati direttamente al 13° piano, dove siamo stati 18 giorni. Dal 12 al 14 settembre non c’è stato permesso di lavarci, di fare le nostre pulizie personali, niente di niente. Questa è un carcere nuovo, costruito nel 1994. Un edificio grande di 13 piani e nell’ultimo venivano rinchiusi i casi di maggiore sicurezza. Quando ci hanno portato lì era vuoto ed ognuno è stato rinchiuso in una singola cella senza poter uscire. Ci facevano uscire per farci la doccia uno per volta. Successivamente ci hanno trasferito al 12° piano che si chiama “Unità di Alloggio Speciale” ma è conosciuta da tutti i detenuti con il nome di “Il Buco”. E’ un’unità per prigionieri che sono stati puniti, o per coloro che sono molto pericolosi o unità di massima sicurezza. Qui siamo stati 17 mesi. Sono delle celle molto piccole con dentro un lavandino di metallo, una doccia, un pezzo di tavolo di pietra, un altro pezzo di pietra che serve da sedia e un letto di ferro. In queste celle dovevamo stare le 24 ore. Ci facevano uscire solo un’ora per la “Ricreazione” un giorno a settimana se non pioveva nè tuonava e se non era un giorno festivo. La ricreazione consisteva nel portarci in una cella più grande con una rete di metallo in alto da dove entrava l’aria della strada.”

Il governo nordamericano ha accusato i nostri 5 compagni di spionaggio. In realtà sono andati lì a esercitare un diritto che ha Cuba: proteggere i suoi cittadini, il suo popolo, cercare informazioni sui gruppi terroristici, e non informazioni sulla sicurezza degli Stati Uniti. E’ stato organizzato un tribunale, in accordo con le leggi americane, scegliendo i giurati nella Florida, dove governa il terrore di questi gruppi violenti. Non è il luogo idoneo per giudicare cittadini come i nostri 5 compagni che provengono da Cuba. Questa posizione è stata fatta notare dagli avvocati della difesa, ma il governo nordamericano si è opposto e quindi il giudizio si è svolto lo stesso in Florida. In nessun momento durante il processo si è potuto dimostrare che i cinque compagni erano andati a cercare informazioni come spie ma si è dimostrato il loro lavoro di prevenzione. Come tutti sappiamo i terroristi che hanno attaccato le TORRI GEMELLE sono stati addestrati in Florida. Se si fossero cercate più informazioni in Florida, forse era possibile evitare quella tragedia. In questo processo sono stati condannati a 2 ergastoli il compagno Gerardo Hernàndez, 1 per Antonio Guerrero e Ramòn Labañino, 19 anni per Fernando Gonzàlez e 15 anni per René Gonzàlez. Una sentenza senza precedenti nel mondo intero. Alcuni giorni fa è stata pubblicata una notizia che un ufficiale dell’esercito che ha partecipato alla guerra in Jugoslavia, reo confesso di spionaggio, è stato condannato ad alcuni anni di prigione, senza neanche arrivare ai dieci anni. Ai nostri compagni, che lottavano contro il terrorismo, sono stati inflitti ergastoli, ergastoli e tanti anni di prigione. Questo trasforma il tutto in una questione politica di vendetta nei confronti di Cuba e trasforma in polvere, in nulla di fatto, la lotta al terrorismo di cui tanto si vanta il governo nordamericano.

Josè Galardy Alarcon
Josè Galardy Alarcon

D: Lei pensa che questa situazione possa risolversi positivamente come quella del piccolo Elian?”

R: Sarà una battaglia con molte difficoltà. In primo luogo bisogna dire che al governo degli Stati Uniti c’è un presidente fascista, repressivo, che vuole annientare i paesi sottosviluppati. Nonostante questo, il nostro popolo si mobilita tutti i giorni chiedendo la liberazione dei nostri cinque compagni. Ogni sabato, in un Municipio differente, la popolazione, in numero mai inferiore a 20.000 e a volte fino a 100.000, si riunisce e partecipa alle TRIBUNE APERTE per chiedere la libertà dei 5 eroi perché così sono stati dichiarati dal nostro governo rivoluzionario. Per questo motivo chiediamo all’opinione pubblica internazionale che si unisca alla nostra lotta per obbligare il governo degli Stati Uniti a liberare i nostri 5 fratelli, lo chiediamo al popolo italiano e alle organizzazioni che sono solidali con la nostra Rivoluzione. Crediamo che come siamo riusciti a vincere la battaglia di Elian, anche i nostri 5 compagni, i nostri 5 eroi ritorneranno a Cuba. 

D: A proposito di Elian, come sta ? Si parla ancora di lui ?

R: Elian ha superato a pieni voti i primi 2 anni di scuola. Vogliamo per lui quello che desideriamo per tutti i nostri bambini, che si sviluppi normalmente, ossia che non tenga nessun tipo di problema nervoso che possa colpirlo nella crescita. Per questo motivo, nel paesino dove vive, né i suoi compagni di scuola, né i suoi vicini gli parlano di quanto è successo negli Stati Uniti. Non sentirete parlare di lui in occasioni particolari, ma si parlerà in generale dei bambini cubani. E’ successo che Fidel lo ha invitato ad un atto pubblico ma mai da solo, sempre in compagnia dei suoi compagni di scuola, affinché si renda conto di non essere al centro dell’attenzione.

D: Ogni anno si riunisce a Ginevra la commissione ONU sui diritti umani. Cosa pensi di questa votazione?

R: Abbiamo visto ancora una volta gli USA manovrare in maniera immorale e crudele, utilizzando la forza e il potere che gli deriva dall’essere la sola potenza mondiale, per cercare di piegare alcuni paesi affinché votassero contro Cuba, con un’ingerenza politica e terroristica nei confronti di paesi poveri come quelli africani che vengono minacciati negandogli crediti anche a nome dell’ONU, perché loro si arrogano anche questo potere, e così anche per alcuni paesi dell’America Latina. Alcuni paesi si sono piegati. Ma analizzando questo voto possiamo dire che il 57% dei paesi presenti ha resistito alle pressioni immorali degli USA, quindi per noi è stata una vittoria e per gli USA una vittoria di Pirro che utilizzeranno per rafforzare il blocco a cui siamo sottomessi da oltre 40 anni. Ma Cuba unita ai paesi del Terzo Mondo e alle persone che sostengono la nostra Rivoluzione saprà resistere alle pressioni dell’Impero.

D: Siamo venuti a conoscenza di quello che è successo a Monterrey in Messico. Che cosa pensi della posizione del Messico?

R: Nell’incontro di Monterrey, era già stato stilato un documento e il nostro Presidente era stato invitato a partecipare. Fidel con la sua presenza, avrebbe denunciato, con tutta la morale e il prestigio che ha nel mondo, il neoliberismo e la politica di dominio mondiale degli Stati Uniti. Questi volevano evitare a tutti i costi che il nostro Comandante en Jefe partecipasse. Invitavano il Presidente del Messico, ma fondamentalmente il Ministro degli Esteri Castañeda a cercare di convincere Fidel a non partecipare. Ma essendo un diritto di tutti i popoli del mondo, Fidel non rinunciò e non promise assolutamente nulla al presidente Fox. Fidel si è presentato e ha creato una situazione difficile e quindi diplomaticamente gli è stato chiesto di partire prima dell’arrivo del Presidente Bush. Fidel parte e non si incontra con il Presidente americano. Fidel per l’ennesima volta ha difeso i paesi del 3° mondo e ridicolizzato la politica imperialista nordamericana affermando anche che i popoli spesso non sanno neanche quello che le Nazioni Unite discutono.

D: Cambiamo totalmente tema. Ho letto sul GRANMA INTERNACIONAL un interessante articolo sull’importanza del ruolo svolto dalle donne cubane nella società. Vorremmo una tua riflessione su questo tema.

R: Non ho letto questo articolo però ti posso dire che nell’ambito della mia vita, sociale e lavorativa, la donna è qualcosa di importante nel mio paese. Socialmente non esiste differenza tra uomo e donna a Cuba, hanno gli stessi diritti, a studiare, a lavorare, a dirigere. La donna arriva ai più alti livelli della nostra società con tutti i suoi diritti. Con soddisfazione possiamo affermare che nostre compagne dirigono imprese, nella direzione del turismo, nell’industria dello zucchero e moltissimo nel lavoro scientifico. In 40 anni di rivoluzione non siamo stati capaci ancora oggi, di cancellare alcuni pregiudizi, però si lavora e si lotta per eliminarli. Affinché non incontrino ostacoli nel loro sviluppo, ad esse sono stati offerti alcuni servizi, come per esempio i circoli infantili per i loro bambini a tempo pieno e altri ancora per alleviare successivamente il lavoro domestico.

D: Quest’anno ricorre il 40° anniversario della Crisi dei missili. Cosa ricorda di quel periodo? Che giudizio dà dell’URSS di quel momento?

R: Io come il CHE, ogni volta che penso a quei giorni, mi sento tremendamente orgoglioso del mio popolo. Il CHE personificò il nostro popolo nel Comandante en Jefe e disse che mai uno statista aveva brillato tanto. Io mi mobilitai con il mio popolo. Presi il mio mitra e occupai il mio posto in trincea. Potei osservare, donne e perfino ragazzi di 15 anni, anziani con il fucile nella mano e lo zaino sulle spalle aspettare l’attacco nordamericano. Quando ci comunicarono che eravamo minacciati da armi atomiche, lo accettammo senza la minima paura. In quel momento il popolo intero era disposto a morire per la Rivoluzione. E’ stata una delle prove più magnifiche di quello che significa il potere del popolo, della massa. L’imperialismo ci ha sottovalutato e hanno potuto osservare un popolo sereno, deciso a morire per la sua Rivoluzione. Questo potere della massa lo abbiamo visto recentemente in Venezuela, dove l’imperialismo per diversi mesi ha pianificato un colpo di stato, lo mette in atto e il popolo in poche ore li ha smascherati e sconfitti. Come ho visto l’atteggiamento della Unione Sovietica che fino a quel momento ci aveva appoggiato e ci aveva persino fornito i missili a medio raggio affinché gli USA non ci aggredissero, che ci avevano dato le armi per difenderci, che ci vendeva tutto a prescindere dal blocco statunitense.…ci ha addolorato molto che durante i colloqui per risolvere quella crisi non hanno considerato quel popolo che era disposto a morire, non solo per la propria Rivoluzione ma per tutto il campo socialista, per il mondo, di fronte agli USA. Siamo convinti che fu un grande errore della direzione del governo Sovietico di quel momento, forse una posizione ferma avrebbe dato il via anche ad altre rivoluzioni nel continente o in altre parti del mondo. Discussero tra potenze mondiali dal punto di vista militare ed economico ed hanno escluso una potenza morale che era Cuba e questo ha addolorato il popolo cubano.

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Josè Galardy Alarcon

Maria de Los Angeles Flores Prida

Intervista a Maria de Los Angeles Flores Prida, ex Ambasciatore di Cuba in Italia

di M. Papacci e F. Costanzi

D: Bill Clinton ha sospeso l’applicazione di alcuni capitoli della legge Helms-Burton. Il suo Segretario di Stato, la sig.ra Albright, tempo fa ha dichiarato che il nuovo presidente George W. Bush vedrà la fine della Rivoluzione cubana. Alla luce di questi atteggiamenti contradditori Lei pensa che nell’anno del 40° anniversario della vittoria di Playa Giron potrebbe finire l’embargo degli USA contro Cuba?

R: La dichiarazione della Sig.ra Albright è la medesima che hanno già formulato altri Segretari di Stato nordamericani. La verità è che questa nuova amministrazione Bush ha lo stesso obiettivo di tutte le altre che si sono susseguite dal trionfo della Rivoluzione ad oggi, cioè sconfiggere il nostro progetto politico-sociale, la nostra società socialista. Nel mondo il ripudio per il blocco inumano ed illegale si va facendo sempre più forte. La riprova l’abbiamo avuta nell’ultima Assemblea Generale dell’ONU dove 167 Paesi hanno votato a favore di Cuba nella risoluzione che chiedeva di mettere fine al blocco. All’interno dello stesso Congresso USA, sia alcuni democratici sia repubblicani hanno presentato una serie di proposte per mettere fine all’embargo sui medicinali e sui generi alimentari. Gli stessi agricoltori statunitensi attuano pressioni, perché vorrebbero vendere a noi i loro prodotti. Per quello che concerne questa nuova Amministrazione è prematuro fare un pronostico perché le dichiarazioni che ha fatto l’attuale Presidente sono state molto ostili verso la Rivoluzione cubana e verso il Presidente Fidel Castro. Credo che sia prematuro pensare che nell’anno che si celebra la vittoria di Playa Giron possa terminare il blocco.

Maria de Los Angeles Flores Prida
Maria de Los Angeles Flores Prida

D: Qual è il ruolo che potrebbe giocare l’Europa nel contrastare il blocco USA contro Cuba?

R: In questi ultimi anni molti Paesi dell’Unione europea hanno firmato accordi commerciali con il nostro Paese. Molti impresari europei hanno firmato con noi contratti ed investito notevoli somme di denaro. La legge Helms-Burton cerca di penalizzare questi impresari. In questo momento negli Stati Uniti stanno attuando un’azione intimidatoria contro la “SOL MELIA”, compagnia di turismo spagnola che ha grandi e vantaggiosi affari con Cuba. Negli ultimi anni abbiamo ampliato molto le relazioni con i Paesi europei, soprattutto nel settore del turismo, settore vitale per la nostra economia. Dopo i canadesi, primi nel numero di persone che visitano il nostro paese, ci sono gli europei.

D: Al fine di non tramutare ricorrenze storiche, come quella di Playa Giron, in vuote cerimonie formali, qual è il comportamento del Governo cubano soprattutto verso le nuove generazioni?

Io credo che, innanzi tutto, occorra mantenere vive, anche con comportamenti coerenti, tutte le tradizioni della nostra storia. Cuba ha una storia molto ricca che parte dalla lotta per l’indipendenza. Già dai primi anni di scuola insegniamo ai ragazzi ad amare i nostri patrioti che sono morti per la libertà del nostro Paese. Penso che l’anno scorso, anno in cui abbiamo affrontato e risolto positivamente la battaglia di civiltà per il ritorno in patria del piccolo Elian Gonzalez, sia stato un anno di “rinnovamento” e di riaffermazione di alcuni valori. L’effervescenza dei primi anni della Rivoluzione è tornata a farsi sentire nel nostro popolo, nei nostri giovani. E sono proprio questi giovani, scesi a milioni nelle piazze, che conducono tutte le marce di riaffermazione rivoluzionaria, queste giornate dove si ricordano le idee di Josè Marti, Maceo, il Che, Camilo Cienfuegos. Le figure di questi eroi sono vive e presenti nei nostri giovani.

D: Qual è il suo ricordo personale dei giorni dello sbarco a Playa Giron?

R: Playa Giron è stata preceduta da una serie di atti di sabotaggio contro importanti istallazioni ed istituzioni cubane. Questo fu il preludio dell’aggressione della Baia dei Porci. Sin dai primi anni del Trionfo della Rivoluzione, sia la CIA, sia il governo degli Stati Uniti, si resero conto della forza che aveva preso il nostro processo rivoluzionario e iniziarono a cospirare contro Cuba. Il 31 dicembre 1960 fu compiuto un attentato contro uno dei più importanti negozi dell’Havana, che si chiamava “Epoca”. Io ero un’impiegata di questo negozio che fu incendiato con una bomba al fosforo e nei mesi successivi, e questo fu il vero preludio di Playa Giron, fu incendiato un altro negozio “L’incanto”, la boutique più elegante che esisteva all’Havana in quel periodo. Il 13 aprile avviene lo sbarco dei mercenari a Playa Giron, aggressione che fu fermata e sconfitta in meno di 72 ore.

D: Cosa rappresenta la vittoria di Playa Giron?

R: Playa Giron rappresenta la prima sconfitta dell’imperialismo nordamericano in America Latina. In questo continente è sempre esistita l’idea che gli Stati Uniti fossero invincibili. Essi non avevano mai mangiato la polvere della sconfitta in un suolo straniero. I cubani sono riusciti a dimostrare che un popolo unito nella difesa della sua indipendenza ed autodeterminazione può sconfiggere un nemico potente che non lotta per giusti ideali ma solo per volontà di dominio e sopraffazione. Come quelli che spinsero i mercenari.

D: Nel 2001, a Cuba si ricorda, anche, il 40° Anniversario della Campagna di Alfabetizzazione. Qual è stata la sua esperienza in questa campagna?

R: Come la maggior parte dei giovani cubani, a quell’epoca, presi parte alla Campagna di Alfabetizzazione. La prima organizzazione fu la brigata Conrado Benitez, composta da giovani studenti che si diressero in tutte le zone del Paese, in particolare sulle montagne e nelle zone impervie con lo scopo di alfabetizzare più persone possibili. Ricordo ancora l’immagine di questi giovani e giovanissimi che giravano con una lampada a petrolio, perché, all’epoca, non c’era l’energia elettrica in tutto il paese. Entravano a far parte delle famiglie contadine. Di giorno, anche loro lavoravano la terra, accudivano gli animali, di sera, alla luce delle lampade a petrolio, insegnavano a leggere e scrivere. Io, come ho già detto, all’epoca ero una commessa. Fu creata una brigata chiamata “Patria o Muerte” composta da lavoratori con un certo grado di istruzione che, dopo l’orario di lavoro, andavano ad alfabetizzare. Io lo feci nei quartieri marginali dell’Havana, dove, in quegli anni, vivevano persone molto povere ed analfabete. Andavamo in quei luoghi dalle sei del pomeriggio sino alle otto della sera, quindi due ore di lezione al giorno.

D: In Europa, soprattutto negli ambienti di sinistra, è stata sottovalutata l’ascesa al potere in Venezuela, Paese ricco di materie prime ma dalla disastrosa situazione sociale, di Hugo Chavez, politico progressista e molto vicino alla Rivoluzione Cubana. Qual è il suo giudizio sull’attuale politica venezuelana?

R: Direi che in Europa si conosce e si parla poco di America Latina. Ogni giorno cerco, sui giornali, notizie provenienti dall’America Latina, ma tranne che accada qualcosa di eccezionale, o uno scandalo o un disastro naturale, non si trova niente. E’ importante sottolineare, come tu facevi, il fatto che Hugo Chavez sia divenuto presidente del Venezuela. Egli ha un progetto di giustizia sociale i cui beneficiari saranno i poveri e gli umili della società venezuelana. Un uomo dalle idee bolivariane, che ha avuto il coraggio di cambiare il nome del suo Paese, ora si chiama Repubblica Bolivariana del Venezuela e con l’obiettivo di realizzare l’integrazione dell’America Latina come la sognò Simon Bolivar. Insomma un problema in più per l’imperialismo USA ma un amico in più per Cuba socialista.

NOTE BIOGRAFICHE

Maria de los Angeles Flores Prida: ha ricoperto vari incarichi nel Ministero delle Relazioni Estere e per diversi anni è stata Viceministro. Inoltre, ha rappresentato Cuba in organismi internazionali per oltre tre decenni. Dal 2000 al 2006, ha sostituito Mario Rodríguez, capo della missione diplomatica cubana a Roma dal 1994.

 

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Maria de Los Angeles Flores Prida

Martha Campos

Intervista a Martha Campos, cantautrice della Nuova Trova

di M. Fierro

D: Martha, tu sei un’artista, un’intellettuale, e appartieni alla prima generazione formatasi nella Cuba rivoluzionaria e socialista. Che cosa ha significato tutto questo per te? Quanto e come l'essere cresciuta a Cuba ha determinato la formazione della persona che sei oggi?

R: Quando trionfò la rivoluzione io avevo 5 anni quindi sono cresciuta dentro il processo rivoluzionario di Cuba e ho vissuto e vivrò tutta la mia vita in esso. Alla luce di ciò, posso dire di aver vissuto sia i momenti duri che quelli belli del mio paese. Come tutti sanno, la rivoluzione cubana portò grandi trasformazioni politiche, sociali e culturali a beneficio del popolo; una delle tante, secondo me fondamentale, fu quella di dare il diritto a tutti i cittadini di studiare e superarsi. Nel mio paese, prima del trionfo della rivoluzione, esisteva la discriminazione razziale, vale a dire che i neri come me non avevano diritto ad un percorso di studio, oltremodo gratuito, come quello che ho fatto io.

Io ho studiato per diventare chitarrista concertista, un percorso che dura 9 anni dove, oltre alla mia formazione musicale, ho ricevuto gli insegnamenti del liceo e nel quale anche tutto il materiale didattico mi era fornito gratuitamente dallo stato cubano, inclusa la chitarra, che è uno strumento costosissimo, i libri, i quaderni, le matite. Un’ altra opportunità consentitami dalla vittoria della rivoluzione è stata quella di potermi proiettare in uno scenario e fare quello che sto facendo oggi, ossia cantare e portare la cultura e l'allegria di un paese il cui unico desiderio è che gli lascino sviluppare una società non perfetta ma sicuramente più giusta e con i diritti fondamentali di uomini e donne garantiti.

Martha Campos
Martha Campos

D: Dico spesso a chi non conosce Cuba che il modo migliore per capire questo paese è quello di visitare, prima, un qualunque altro paese dell'America Latina: essere cubano nel continente americano è realmente una condizione diversa, direi un privilegio. Per la tua esperienza, qual è la percezione che gli abitanti degli altri paesi latinoamericani hanno di Cuba?

R: Senza dubbio credo che Cuba sia molto speciale nel contesto della nostra America. C’è una storia che ci unisce ai fratelli latini sebbene ogni popolo o paese dell'America abbia le sue idiosincrasie, le sue abitudini e la sua storia. Ho avuto l'opportunità di visitare alcuni di questi paesi e di certo Cuba ha altre caratteristiche che la rendono speciale al confronto, a cominciare dal suo sistema politico sociale. Questo fa sì che quando visiti uno di questi paesi ti senta speciale. La gente ti trasmette molto rispetto e affetto per il nostro processo ed i nostri dirigenti, apprezzano la nostra musica, la nostra cultura, i nostri risultati sportivi, i nostri risultati nell'educazione e nella sanità. Puoi incontrare anche gente che non è d’accordo col nostro sistema ma anche in tutto questo c'è una gran disinformazione da parte dei mezzi di comunicazione e diffusione che non rispecchiano la nostra vera realtà; ad ogni modo io ho ricevuto sempre molto affetto.

D: Martha, tu non sei una professionista della politica, vorrei pertanto conoscere il tuo punto di vista di semplice cittadina sulla nota vicenda della scorsa primavera, relativa ai settantaquattro arrestati ed ai tre condannati a morte. Vorrei, anche, che tu ci raccontassi come sono stati vissuti quegli avvenimenti dalla popolazione e quale ne è stata la percezione comune.

R: Nel mio paese siamo per l’abolizione della pena di morte. Io sono contro la pena di morte ingiustificata. Penso che nessuno abbia diritto a togliere la vita a nessuno. Però in questo caso, per esprimere un giudizio su ciò che è accaduto a Cuba, bisogna conoscere a fondo la nostra storia e la traiettoria che ha avuto la rivoluzione, fin dalla sua nascita, nella lotta contro sabotaggi, bombe, attacchi ad imbarcazioni, assassini sulle coste di soldati guardiafrontiere. Bisogna vivere la quotidianità del nostro paese e del nostro popolo. Cuba è costantemente assediata dall'imperialismo e quando è successo questo episodio le tensioni tra stati uniti e Cuba erano ad un punto tale che la fune poteva rompersi da qualunque lato. Però c’erano un paese, una storia, e delle conquiste da difendere, allora non si poteva sacrificare un intero popolo per un gruppo di delinquenti, per di più pagati dalla mafia cubano- americana, disposti a tutto pur di raggiungere i propri scopi.

D: Abbiamo parlato del passato e dell'attuale. Vorrei, ora, che tu ti facessi interprete della società del tuo paese e ci raccontassi le aspettative e le speranze, ma anche i timori e le preoccupazioni, della gente che vive e lavora a Cuba.

R: A Cuba si costruisce una società giusta verso la vita in generale. Ovviamente in questo processo appaiono delle imperfezioni, dovute al fatto che abbiamo dovuto sopravvivere nel mondo attuale che è brutale. Dalla caduta del campo socialista fino ai nostri giorni. Cuba ha dovuto arrangiarsi costantemente per poter stare in questo mondo, adattando la nostra economia alle situazioni che via via si presentano, organizzando un’uguale ripartizione degli alimenti per tutti, aprendo al mercato del turismo che è diventato la nostra voce economica fondamentale e lottare con i mali che esso trascina. Nonostante tutto questo siamo ancora lì a difendere quelli che ci siamo proposti e ciò e reso difficile anche dall’ingiusto blocco che dura ormai da più di 45 anni. Io vedo il futuro del mio paese con molto ottimismo. Sappiamo che la strada è dura, ma in questa vita bisogna essere ottimisti ed io credo che avremo sempre la nostra volontà e la nostra allegria per lottare per una società che si occupi dei poveri e degli umili.

NOTE BIOGRAFICHE

Martha Campos: Nata all’Avana il 7 marzo del 1954. Ha iniziato a studiare musica presso il Conservatorio “Amadeo Roldán”, laureandosi in chitarra classica nell’anno 1976. Nel 1978 diviene membro del movimento della Nuova Trova Cubana. È stata presidente di questo movimento nelle province di Sancti Spiritus e dell’Avana e membro attivo dell’esecutivo nazionale. Da allora ha partecipato a diversi eventi nazionali ed internazionali. Durante la sua carriera ha condiviso la scena con Sara González, Liuba María Hevia, Vincente Feliú, Santiago Feliú, Miriam Ramos, Augusto Blanca, Angel Quintero, Heidi Igualada e Rita del Padrado. Dal 1988 al 1994 ha fromato un duo con José Antonio Quesada. Nel 1982 ha partecipato alla registrazione del disco “Para germinar” insieme a Xiomara Laugart, Anabel López, Alberto Tosca ed altri. Nel 1997 ha registrato il suo primo disco da solista intitolato “Quiero dormir con la luna” e nel 1999 ha lanciato il suo secondo CD “Como Soy”, entrambi della compagnia discografica Picap di Barcellona.

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Oliviero Diliberto

Intervista a Oliviero Diliberto, Segretario Nazionale del Partito dei Comunisti Italiani

di S. Russo e M. Papacci

D: Con le dovute differenze culturali, storiche, geografiche e politiche, cosa prenderebbe del sistema cubano per adottarlo in Italia?

R: Sicuramente il sistema di protezione sociale, che è il più avanzato non soltanto di tutta l’America Latina, il che non è molto difficile visto lo stato degli altri paesi, ma anche rispetto a molti paesi occidentali, o cosiddetti occidentali. Penso al sistema sanitario, al sistema della protezione del lavoro, che sono avanzatissimi. Non è un caso che Cuba venga attaccata parlando di Diritti Umani, dimenticandosi, naturalmente sono in malafede quelli che l’attaccano, che il grande tema dei Diritti Umani inizia dal diritto alla vita, ad una vita decente, ad una vita dignitosa per tutti e non soltanto per ristretti gruppi di privilegiati come nel resto del mondo.


Oliviero Diliberto

D: A Cuba, alcune tipologie di cittadini (tra cui, ad esempio i lavoratori di zuccherifici dimessi o in via di ristrutturazione), hanno la possibilità di scegliere tra un nuovo lavoro e frequentare l’università o corsi professionali, in questo secondo caso, ricevono comunque un salario. Sa di altri paesi nel mondo in cui si adotta questo stesso principio?

R: Ovviamente no. E’ un principio avanzatissimo. Se vogliamo è un principio che potrebbe tranquillamente trovarsi nella nostra Costituzione repubblicana che vogliono smantellare perché è il principio del diritto al lavoro, connesso con il diritto all’istruzione. In Italia ci fu negli anni ’70 dopo la grande vittoria dello Statuto dei lavoratori, un esperimento non così avanzato ovviamente, ma altrettanto interessante che era quello delle cosi dette 150 ore. Cioè 150 ore di lavoro retribuite come lavoro per quegli operai che andavano all’università o comunque volevano apprendere nelle istituzioni scolastiche italiane. Naturalmente è durato poco perché gli imprenditori non accettano l’idea che i lavoratori siano istruiti, per un motivo molto semplice che alcuni si dimenticano, che la cultura è lo strumento più formidabile per avere conoscenza, per avere consapevolezza dei propri diritti, quindi andava abolito.

D: In Italia, il PDCI è l’unico partito che sostiene con coerenza il sistema di governo cubano, cos’è che vi fa mantenere questa posizione (sicuramente non troppo comoda nello scenario politico italiano) di costante rispetto nei confronti della Rivoluzione Cubana, cos’è che vi porta a non unirvi a tutti gli altri partiti- nessuno escluso- schierati contro i “sistemi” di Fidel Castro, “il dittatore che mangia i bambini”?

R: Basterebbe quello che ho detto sino adesso per giustificare la difesa di Cuba. In realtà aggiungo un’altra cosa. Noi siamo coerentemente antimperialisti, parola che non si usa più, neanche tra quelli che si dichiarano comunisti in altri partiti. E’ il punto chiave. Cuba non viene attaccata perché c’è una presunta “dittatura”, perché se fosse questo il motivo, gli Stati Uniti dovrebbero attaccare mezzo mondo. Cuba viene attaccata proprio perché è un simbolo per tutti coloro che nel mondo non si sono arresi. E quindi va difesa, vorrei dire quasi a prescindere, perché è la garanzia che si può sconfiggere l’imperialismo. Per altro il simbolo è particolarmente rilevante proprio perché è una piccola isola, a 90 miglia marine dagli Stati Uniti d’America e questi non sono riusciti a eliminarla in tutti questi anni ed è straordinario tutto quello che è successo. L’unico esempio analogo che io mi ricordo, forse i più giovani non lo ricordano, è esattamente di circa trenta anni fa, quando nel 1975 fu ammainata a Saigon la bandiera degli Stati Uniti. Ricordo un’immagine fortissima cioè l’elicottero dell’Ambasciata degli Stati Uniti sul tetto dell’ambasciata stessa che precipitosamente scappava. Anche lì alcuni milioni di piccoli grandi uomini, i vietnamiti, riuscirono a sconfiggere il gigante americano. Non sono molti gli esempi nella storia mondiale, quindi teniamoceli stretti e difendiamoli.

D: Alla luce della sentenza del tribunale di Atlanta che dichiara nullo il giudizio tenutosi a Miami contro i Cinque cubani con cui li si condannava a più ergastoli senza alcuna prova a sostegno delle accuse, lei crede nel sistema giudiziario statunitense? Crede che questo possa andare oltre le fortissime pressioni politiche, tutte assolutamente contro i Cinque cubani, restituendogli finalmente la libertà?

R: Io ho una scarsa fiducia nel sistema giudiziario statunitense, anche perché avendolo visto da vicino, nella vicenda della liberazione di Silvia Baraldini, come dire ho scarsa fiducia. Tuttavia è comunque un successo l’annullamento di quella sentenza. Io lessi a suo tempo le motivazioni delle condanne, erano aberranti, anche dal punto di vista della giustizia degli Stati Uniti d’America che si proclama “garantista”. Per avere un processo equo, dovrebbe tenersi lontano dalla Florida, e se fosse possibile con degli osservatori internazionali. Per quanto ci riguarda, come Partito dei Comunisti Italiani, continueremo a sostenere la causa dei Cinque patrioti, che tra l’altro avevano ricevuto delle sentenze con delle pene accessorie di cui non parla nessuno, come per esempio il divieto di incontrare i propri familiari, cosa che dovrebbe urtare la coscienza democratica di qualunque persona perbene. Adesso lasciamo stare la categoria destra o sinistra, qualunque persona perbene. Occorre che l’opinione pubblica stia bene attenta a quello che succede appunto nel prossimo processo che si farà negli Stati Uniti, in modo tale da far sentire a quel tribunale, che non sappiamo ancora quale sarà, che comunque non possono fare quello che gli pare.

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Oliviero Diliberto

Orlando Borrego

Intervista a Orlando Borrego

di M. Papacci

D: Chi è oggi Orlando Borrego?

R: Oggi sono un membro della gerontocrazia cubana, ho 62 anni. Ho cominciato con il Che nella guerriglia, poi ho avuto il privilegio di lavorare con lui come secondo capo del Dipartimento di Ricevimento dell’INRA-Istituto Nazionale di Riforma Agraria- e successivamente vice primo ministro dell’Industria, fino a pochi mesi prima che il Che lasciasse Cuba. In tutti questi anni mi sono dedicato al lavoro di direzione, successivamente come assessore nel settore economico del Ministero. Direi che attualmente cerco di continuare ad essere un alunno del Che, cercando di avvicinarmi, il più possibile tutti i giorni, al suo messaggio rivoluzionario, alle sue idee e mantenere vivo il suo pensiero, nel senso generale, dentro il complesso mondo in cui oggi si vive.

Ho continuato ad essere molto legato alla sua famiglia, ai suoi figli. Da diverso tempo sto cercando di trasmettere loro il pensiero del padre, stiamo studiando intensamente tutti gli aspetti sia dal punto di vista economico che sociale. Tutto questo lavoro è importante perché i figli conoscano il pensiero del Che e sappiano trasmetterlo e diffonderlo nel mondo. Quindi cerco, alla mia età, di continuare sulla stessa linea e cerco di apportare, nel limite delle mie possibilità, tutto quello che posso per questo progetto rivoluzionario, che continua ad essere lo stesso che il Che ha difeso, insieme al leader principale della Rivoluzione cubana, con il quale è stato sempre profondamente identificato e ha sempre mantenuto un’unità totale di pensiero e di linea d’azione.

Orlando Borrego
Orlando Borrego

D: Lei ha partecipato alla lotta contro la tirannia di Batista? Può raccontarci brevemente la sua storia?

R: Non mi piace molto raccontare la mia storia, peraltro molto modesta. Qualcosa possiamo dire; ho iniziato nel movimento 26 di luglio, praticamente dall’attacco alla Caserma Moncada. Ero uno studente della provincia di Holguin, antica provincia di Oriente. Ho partecipato alle lotte rivoluzionarie in questa provincia e in un determinato momento, per le condizioni che esistevano, mi sono incorporato alla colonna del Che quando la guerriglia, dalla provincia orientale, si dirigeva verso Villa Clara. Sono stato con lui nella campagna militare dell’Escambray, ho avuto i gradi di primo tenente e poi ho continuato ha lavorare con lui fino a quando non ha deciso di lasciare Cuba per altre terre del mondo.

D: Quando l’ha conosciuto per la prima volta? E che impressione le ha fatto?

R: L’ho conosciuto nell’accampamento guerrigliero dell’Escambray nel 1958. Un incontro tra un leader guerrigliero già consolidato, consacrato da una grande lotta, ed un semplice principiante della guerriglia. Un incontro poco formale, ero uno studente quando mi incorporai, abbiamo avuto un breve colloquio su quello che potevo fare, come potevo essere utile alla guerriglia e così, poco tempo dopo, mi assegnò il controllo delle finanze della guerriglia, incarico che occupai fino alla fine della guerra. Partecipai ad alcune battaglie, poi venni con lui ad occupare il reggimento della Cabaña e anche lì mi assegnò compiti nel campo dell’economia. Ho continuato ha lavorare in questo campo fino al giorno della sua partenza.

D: Può raccontarci qualche aneddoto sul Che guerrigliero e il Che ministro?

R: Questa è una domanda molto interessante perché ho sempre pensato che il Che si distinguesse come un gran combattente, come un capo guerrigliero con un’alta formazione politica. Il Che portava con sé tutta una serie di conoscenze politiche e filosofiche proprie del marxismo ed alcune idee sull’economia marxista. Il suo carisma, la sua leadership, si rivelarono con molta forza sin dal principio della guerriglia perché come capo, oltre ad essere un combattente, era un educatore delle sue truppe, infatti si dedicò con molto sforzo all’educazione dei suoi uomini, specialmente coloro che procedevano dalla Sierra Maestra, i quali erano contadini e analfabeti. Nonostante la lotta guerrigliera, il Che ebbe per loro una grande dedizione. In questo modo si conquistò il rispetto e l’apprezzamento straordinario dei suoi uomini.

Era un uomo dalla forte disciplina, aveva un’estrema capacità di sacrificio, di esempio personale permanente; cosicché quando terminò la guerra, era già un vero leader riconosciuto dal nostro popolo, un vero esempio di rivoluzionario. Pratica che ha seguito in tutta la sua vita. E’ stato un grande organizzatore ed è interessante osservare che, già nella guerriglia, il Che pone le basi per il futuro Stato Rivoluzionario da impiantare e sviluppare a Cuba quando ancora non era definito se fosse stato un paese socialista. Era convinto che bisognasse realizzare grandi trasformazioni di tipo sociale, aveva un pensiero molto avanzato sul sistema di organizzazione, a tal punto che si riconosce oggi che il Che, per esempio nel campo del futuro sviluppo industriale di Cuba, aveva gettato determinate premesse sin dall’epoca della guerriglia. Pensava quindi che quest’ultima non fosse potuto dipendere solo dall’aiuto esterno, ma doveva sforzarsi nel produrre quello di cui aveva bisogno. Organizzò così nella Sierra delle piccole officine per riparare le armi e successivamente portò quest’idea all’interno della Cabaña affinché l’Esercito Ribelle non fosse dipendente dalle spese dello Stato, ma potesse autofinanziarsi, questo fu il suo modo di organizzare il futuro embrione dello sviluppo industriale all’interno dell’Esercito. Queste idee le svilupperà in maniera più ampia quando occuperà l’incarico di Ministro dell’Industria.

D: Una volta il Che disse che lei gli assomigliava moltissimo, l’unica cosa che le mancava era l’asma. Cosa pensa di questa affermazione?

R: Questo è uno scherzo mal interpretato, quello che è successo è il seguente: io soffro un po’ di allergia, però non di asma, a volte ho avuto piccole crisi, molto leggere, sembravano crisi asmatiche. C’era un compagno nella guerriglia del Che, molto conosciuto, che si chiamava Carlos Coello, il famoso Tumaini nella guerriglia del Congo, Tuma in Bolivia, che era un tipo a cui piaceva fare molti scherzi. Andavamo molto d’accordo ed eravamo degli ottimi amici; successe che il Tuma, durante la spedizione nel Congo, questo me lo raccontò il Che quando tornò dall’Africa, stava parlando con il Che sulla campagna del Congo e finirono per parlare della mia persona e il Tuma disse: ”Borrego le assomiglia a tal punto che l’unica cosa che gli manca è l’asma”, questa è la verità, fu Tumaini a dirlo non il Che.

D: Quando ha visto per l’ultima volta il Che? Le disse e le lasciò qualcosa?

R: Bene, ho avuto due momenti importanti relativi alle sue partenze dal paese. Per primo lo salutai quando partì per il Congo. Alcuni giorni prima, quando sapevamo che sarebbe partito ma non conoscevamo la destinazione, avemmo un incontro molto lungo, questo fu il primo congedo. Pensavo che non lo avrei più rivisto e non immaginavo di rivederlo come poi successe effettivamente. Ho mantenuto i contatti con lui durante il periodo del Congo, comunicazioni chiaramente segrete, ci scrivevamo ogni tanto. Gli mandavo del materiale e lui mi spediva cose utili per fare delle ricerche nel campo economico. Ha sempre avuto questa preoccupazione per continuare gli studi sull’economia. Quando terminò la campagna del Congo rimasi sempre in contatto con lui, anche quando si trovava in transito in Cecoslovacchia ma non avevo idea che potesse tornare a Cuba.

Un bel giorno Fidel mi mandò a chiamare e mi comunicò che il Che era a Cuba, per me fu una sorpresa straordinaria, e che voleva vedermi. Immediatamente mi trasferii nella provincia di Pinar del Rio dove si trovava un campo per le esercitazioni scelto dal Che e fu così che lo rincontrai, durante la seconda parte iniziale della nuova spedizione. Fu un momento indimenticabile. In quel periodo ero Ministro dell’Industria dello Zucchero, con frequenza settimanale lo andavo a visitare ed ho anche partecipato ad alcune esercitazioni militari con lui e con gli altri guerriglieri, con la speranza di potermi incorporare alla futura spedizione boliviana. Purtroppo questo desiderio non si è avverato. Praticamente sono stato con lui fino al momento in cui è partito per l’aeroporto, insieme ad un ridotto numero di compagni.

D: Lei è stato incaricato dallo Stato Cubano di scrivere cinque libri, se non sbaglio, sul pensiero del Guerrigliero Eroico. Furono pubblicate solo poche copie, all’incirca duecento, perché non si pubblicò un numero maggiore di copie? E’ possibile sapere qualcosa sul contenuto di questi testi?

R: Anche in questo caso c’è un’interpretazione non esatta. Non sono stato incaricato di scrivere questi testi dal Governo cubano. Quando il Che lascia Cuba per la prima volta, ho avuto la preoccupazione di riepilogare tutti i suoi scritti, i suoi discorsi, inclusi alcuni articoli scritti con il suo pseudonimo su alcuni giornali cubani, discorsi che aveva pronunciato in altri paesi, lettere, il Che ne scrisse moltissime.Non pensavo di inserire tutte queste lettere nei libri. Fu un lavoro molto faticoso, lavoravo come Ministro ed ero impegnatissimo, quindi designai due compagni, l’ingegnere Enrique Oltuski e Juan Josè Clavero, un ragazzo giovane che aveva lavorato nell’ufficio del Che, affinché mi aiutassero in questo lavoro che durò mesi. Controllammo tutta la documentazione esistente a Cuba. Sollecitammo le nostre ambasciate all’estero affinché ci inviassero tutto quello che il Che aveva detto e scritto.

Poi venne un lavoro molto difficile, non esistevano i computer che abbiamo oggi, tutti questi scritti si trovavano sui giornali, su riviste e alcuni erano registrazioni. Io avevo preso la precauzione, nel 1963, di iniziare a registrare, contro la sua volontà, il Che durante le riunioni principali al Ministero dell’Industria; lui mi diceva che non c’era bisogno di registrare, dopo un po’, decisi di registrarlo comunque ed incaricai un giovane per questo compito. Alla fine il Che lo accettò pensando che potesse essere utile nel futuro ed esiste un libro, il sesto perché sono sette e non cinque, che contiene tutte le registrazioni del Ministero. Per me è una delle parti più interessanti perché sta tutto in viva voce senza correzioni. Quindi nel suo Ministero vennero editi i libri. Decidemmo il numero di copie da stampare. Cento copie per ogni libro.

Terminammo il lavoro proprio quando il Che era tornato a Cuba di passaggio per la Bolivia, nello stesso giorno, e così ebbi la possibilità di consegnare a Fidel la prima stampa e sorpresi il Che consegnandogli l’opera completa. Lui la poté vedere e controllare e rimase molto meravigliato; fu un momento molto toccante perché non pensava si potesse fare questo lavoro e ci scherzò sopra. Tutto questo avvenne nell’accampamento guerrigliero di Pinar del Rio, dove mi presentai con i sette libri; in quell’occasione mi disse che, se fosse stata l’ora di scrivere o parlare di nuovo sul contenuto dei testi, sicuramente lo avrebbe fatto meglio. Ne controllò alcuni e poi lui stesso fece una lista dei compagni a cui dovevano essere consegnati. Si distribuirono cento esemplari e gli altri rimasero in archivio. Ritengo che sia stato un lavoro molto importante perché da questo sono stati estratti molti materiali per la pubblicazione posteriore di altri testi. Di questi sette libri, direi che una gran parte è stata pubblicata; sicuramente tutti gli articoli e anche molte lettere.

Che cosa non è stato pubblicato? Principalmente il libro delle registrazioni, alcune note sì. Non è stato pubblicato perché non era un’edizione professionale, fatta per essere pubblicata e questo libro conteneva alcuni aspetti interni di lavoro che in quel periodo non era conveniente pubblicare, eravamo in un contesto storico internazionale distinto. Ora stiamo lavorando per pubblicarlo, l’ho ricontrollato recentemente e penso che nei mesi futuri, chissà, possa essere dato alle stampe. Questa è la vera storia dei sette libri.

Di questi sette libri, direi che una gran parte è stata pubblicata; sicuramente tutti gli articoli e anche molte lettere. Che cosa non è stato pubblicato? Principalmente il libro delle registrazioni, alcune note sì. Non è stato pubblicato perché non era un’edizione professionale, fatta per essere pubblicata e questo libro conteneva alcuni aspetti interni di lavoro che in quel periodo non era conveniente pubblicare, eravamo in un contesto storico internazionale distinto. Ora stiamo lavorando per pubblicarlo, l’ho ricontrollato recentemente e penso che nei mesi futuri, chissà, possa essere dato alle stampe. Questa è la vera storia dei sette libri.

D: Cambiamo tema, cosa ha provato quando ha saputo che avevano scoperto i resti del Che e dei compagni che sono caduti con lui in Bolivia e che presto sarebbero stati portati a Cuba?

Credo che, per tutti i compagni, questo è stato un evento di un impatto molto forte, emozionalmente molto forte. Ero al corrente che da diverso tempo si stavano svolgendo delle ricerche per trovare i resti, ma la speranza che fossero scoperti era minima; però con il tempo aumentarono le possibilità. Ero al corrente delle ricerche soprattutto attraverso la famiglia del Che, fino a che non arrivò la notizia della scoperta che colpì tutto il popolo di Cuba. Questa cosa mi ha segnato moltissimo. Ho partecipato alla manifestazione per rendere omaggio al Che a Santa Clara e penso che storicamente sia stato un momento cruciale in tutta la straordinaria storia del Che.

In un primo momento ho pensato se fosse conveniente portare i resti a Cuba, pensando che forse fosse più giusto lasciarli lì dove era caduto, però poi mi sono convinto che fosse più corretto riportarli qui. Convinzione prodotta dal fatto, come voi sapete, della sottrazione dei resti di personalità della storia come per esempio Evita Peron in Argentina ed altri ancora. Questi resti potevano essere manipolati dai nostri nemici in forma totalmente disonesta.

Quindi sono stato uno di quelli convinti ed ho accettato l’idea che i resti dovessero riposare qui e, inoltre, che si convertisse, come poi è accaduto, in un luogo importante d’incontro, non solo per noi, ma anche per molti visitatori, rivoluzionari e non, dell’America Latina che hanno rispetto e ammirazione per la persona del Che. Vado spesso al mausoleo. Ho provato una grande allegria per il ritorno in patria di questi compagni. Ne ho conosciuti molti e sono stato con loro fino all’ultimo momento prima che lasciassero l’isola. Penso che, come per tutti i cubani, anche per me sia stato un momento fondamentale della storia degli ultimi anni della nostra Rivoluzione.

D: Perché è cosi attuale il pensiero del Che a più di trent’anni dalla sua morte?

R: Per prima cosa voglio dirti che questa sarà una risposta lunga. Credo che, come tutti i personaggi che passano alla storia, come il Che, rivoluzionari e non, hanno resistito nel tempo perché attuali con il loro pensiero tanto nel campo scientifico quanto in quello politico. Nel caso del Che i due pensieri si fondono, grazie alla sua variegata personalità ed è per questo motivo che siamo di fronte ad un personaggio più che mai attuale. Dal mio punto di vista do maggiore importanza al suo pensiero in campo economico, politico, filosofico e a tutto quello che ha lasciato come eredità in termini di pratica rivoluzionaria. Negli ultimi tempi stavo studiando il pensiero del Che con tutta imparzialità ed ho scritto alcuni articoli. E’ sorprendente osservare la grande visione che ha avuto il Che.

In questo mondo controverso in cui viviamo, globalizzato, altamente tecnologizzato, con il grande sviluppo che hanno avuto i mezzi di comunicazione, nella tecnica di direzione della società è così forte l’attualità del suo pensiero. Ci sono vari aspetti fondamentali: la sua visione-previsione azzardata, inizialmente eretica, riguardo il processo di sviluppo del Socialismo, la sua critica alla pratica del Socialismo nei paesi socialisti, specialmente quelli dell’est europeo compresa l’Unione Sovietica. Il Che seppe prevedere la caduta del campo socialista e lo mise per iscritto nel 1965, alla fine della campagna guerrigliera del Congo. Disse che la via che stava seguendo il campo socialista stava subendo delle deviazioni che si stavano producendo nel sistema di direzione della società e soprattutto nella nascita di un sistema ibrido prodotto dell’introduzione di categorie capitaliste nel sistema socialista e che, quindi, questo stava tornando al capitalismo; questo disse e lo pubblicò.Ebbe una visione sorprendente a tal punto che anch’io ebbi dei dubbi su tali critiche e pensavo che il Che non avesse ragione.

Ci aveva insegnato ad essere critici. Abbiamo sempre cercato di seguire questa linea e, sebbene fosse stato scritto dal Che, questo non significava che dovevamo fare nostre queste sue critiche. Io, che ero d’accordo con lo sviluppo storico, non consideravo in quel momento che un regime economico sociale potesse ritornare al passato. Altrimenti saremmo passati allo studio del materialismo storico; è come dire il feudalesimo non ritornò alla schiavitù, il capitalismo non ritornò al feudalesimo e quindi non mi spiegavo come il socialismo fosse potuto ritornare al capitalismo. Ma lui fu in grado di divulgare questo e fatalmente avvenne. Questa per me è una cosa trascendentale. A partire da questo punto ci sono vari temi di cui lui ha parlato che sono molto attuali ed imprescindibili per lo sviluppo di una società socialista. In primissimo luogo il suo avvalorare il ruolo dell’uomo nella società. Lo sviluppo della coscienza dell’individuo come cosa fondamentale.

Quindi, insieme allo sviluppo economico, perché il Che non pretendeva una società socialista, con penuria, miseria e difficoltà anzi, al contrario, possibilmente una società socialista avrebbe dovuto avere un alto sviluppo di soddisfazione di tutte le necessità di cui ha bisogno una società, chiaramente sana, non con lo stile del consumo capitalista, come base fondamentale doveva esserci la coscienza dell’individuo. Perché se si trattava solamente dello sviluppo della forza produttiva, dello sviluppo di una società di consumo, egli affermava che in questo campo il capitalismo aveva dimostrato la sua efficienza. Sosteneva anche che attraverso i mezzi di esportazione si potesse arrivare ad un alto sviluppo economico, però l’essenziale della società socialista era la trasformazione dell’uomo.

Bisognava pretendere, insieme allo sviluppo della forza produttiva, dello sviluppo economico, lo sviluppo dell’uomo nuovo. Fino ad arrivare al punto dove si univano le curve della crescita economica e la coscienza dell’individuo. Questo per lui era il comunismo. Consacrò tutta la vita allo sviluppo e alla educazione dell’uomo. Questo è uno degli aspetti più attuali del pensiero del Che, valido oggi, e nel caso cubano tale concetto si difende nell’isola con molta forza nonostante tutte le difficoltà che abbiamo; con alcune deformazioni che si sono introdotte nel processo rivoluzionario cubano. Prodotto della situazione economica che oggi affrontiamo. Al costo internazionale che abbiamo avuto, l’educazione e la qualità dell’individuo si mantengono come una bandiera e come un aspetto fondamentale.Altro punto interessante dell’attualità del Che è nel campo dell’impresa, nella direzione della società e nel campo della direzione economica.

Anche in questi settori fu capace di apportare delle novità. In quell’epoca non si conosceva la parola “marketing”, però lui ebbe l’idea, quando si trovava al Ministero dell’Industria, di preoccuparsi molto di organizzare dipartimenti ed aree per uno studio approfondito riguardo lo sviluppo industriale di determinati prodotti, non solo dal punto di vista della qualità -oggi si parla molto del sistema di qualità- ma anche nei termini di costi di produzione. Si interessava alla cura del disegno del prodotto al quale dedicava molto tempo, finanche alla divulgazione e promozione dei prodotti. Quindi oggi, quando si studia il marketing attuale, le distinte scuole ed applicazioni nei distinti paesi, ci si accorge che il Che ci anticipò nei tempi.

Anche nel campo della comunicazione elettronica possiamo trovare alcuni aspetti dell’attualità del Che. Dal 1959 aveva previsto che ci sarebbe stato un grande sviluppo in questo campo fino ad arrivare alla informatizzazione di alto livello. Studiò questo tema, quindi introdusse nel Ministero dell’Industria la meccanizzazione di tutto il sistema di gestione. Quando fu acquistato il primo computer a Cuba, nel 1963/64, egli si preoccupò di sfruttarlo al massimo e sognava un sistema di gestione economica totalmente automatizzato, dove esistesse una comunicazione di tutti i rami dell’economia del paese che permettesse di avere un centro, che sarebbe servito per prendere decisioni e realizzare le gestioni economiche più importanti. Per portare avanti questa idea si dedicò allo studio personale intensivo di contabilità, costi di produzione e matematica superiore, osservando che l’uso di questa aveva un’importanza vitale nel futuro sviluppo del sistema automatizzato.

Ci sono tanti altri aspetti di cui potrei parlarti. Per esempio credo che ebbe una gran visione sulla formazione dell’uomo, sullo studio e sul superamento delle proprie capacità a cui oggi si dà molta importanza nel mondo e si considera come attributo essenziale nello sviluppo dell’uomo. Le conoscenze sono infinite e nella società attuale se non hai un alto sviluppo della formazione tecnica professionale è impossibile assimilare le diverse conoscenze e assimilare le tecnologie all’avanguardia nel mondo di oggi.

D: Nel 1999 si celebra il 40°anniversario della scomparsa di Camilo Cienfuegos. Lei ha avuto la possibilità di conoscerlo? Può raccontarci qualcosa sul “Señor de la Vanguardia”?

R: Nel caso di Camilo Cienfuegos succede una cosa interessante dal punto di vista storico, perché quando io decido di incorporarmi nella guerriglia, la mia intenzione era quella di unirmi alla colonna di Camilo. A quell’epoca egli aveva la fama di un guerrigliero esemplare, del capo guerrigliero che era un vero artista della lotta. Mi avevano detto che era un tipo simpatico, il classico cubano creolo, dagli ottimi rapporti umani, quindi ero attratto dalla sua figura. Per contro avevo l’immagine del Che, di una persona dura, esigente ed io non volevo unirmi alla sua colonna. Però avvenne il seguente: quando andai per unirmi alla guerriglia, la zona dove operava Camilo era occupata dall’esercito della tirannia ed i compagni del Movimento 26 di Luglio, che mi servivano da contatto e da guida per unirmi alla truppa di Camilo, mi consigliarono di no e mi invitarono ad unirmi alla truppa del Che; sebbene un po’ dispiaciuto acconsentii a questo cambio. Quanto ti ho raccontato è per spiegare che la mia unione con il gruppo di Guevara fu, dal punto di vista storico, casuale.

Casuale fu anche la rapida intesa che avemmo, fin dal primo momento in cui conversammo. Quando terminò la guerra incontrai diverse volte Camilo. Ricordo il primo incontro perché non fu molto bello. Andavo per le vie dell’Havana correndo ad alta velocità con la mia auto; ad un tratto mi accorgo che c’era un’auto che mi stava seguendo, riuscì a raggiungermi e mi obbligo a fermarmi. Da quest’auto scese Camilo, mi rimproverò, gridando, per l’alta velocità a cui andavo, accusandomi di essere un irresponsabile. Poi si calmò e all’improvviso mi disse: ”Accompagnami, ti invito a bere una birra” ci fermammo in un bar e l’immagine severa dell’uomo che mi aveva fermato si trasformò in allegra e simpatica. Lui era così. Lo incontrai altre volte ma per motivi di lavoro. Aveva sempre il sorriso sulle labbra, una persona affabile.

Ti voglio raccontare un aneddoto simpatico, legato alla figura del Che. Loro due erano come fratelli, Camilo fu un soldato della truppa del Che, poi venne designato da Fidel capo di una colonna guerrigliera; svilupparono un’amicizia incredibile. Camilo si permetteva di scherzare con il Che, scherzi personali. Ricordo che una volta, quando il Che era Presidente del Banco Nacional, io mi trovavo con lui, stavamo sbrigando alcune pratiche, arrivò Camilo e lo abbracciò, gli tolse il basco e gli mise in testa il suo sombrero e iniziarono a scherzare come due ragazzini. La scomparsa di Camilo per il Che è stato un colpo durissimo. Non a caso, il primo figlio maschio del Che si chiama Camilo. Questo è quanto ti posso raccontare sul Señor de la Vanguardia, un eroe amato moltissimo dal nostro popolo.

NOTE BIOGRAFICHE

Orlando Borrego: Assessore del Ministro dei Trasporti e Assessore della catena turistica Orizontes. Partecipò alla lotta guerrigliera nella colonna del Che. Quando si unì al Che studiava economia e il Guerrigliero Eroico lo volle con sé al Ministero dell’Industria. Attualmente è il titolare della cattedra “Ernesto Che Guevara” all’Università.

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Orlando Borrego

Percy Alvarado Godoy

Intervista a Percy Alvarado Godoy

di F. Casari in collaborazione con M. Papacci

Se le vie del signore sono infinite, quelle del terrorismo contro Cuba portano tutte a Miami. Nella battaglia che Cuba conduce contro il terrorismo, un capitolo importante riguarda la capacità di La Habana di svolgere una adeguata azione di intelligence per prevenire, impedire o comunque vigilare sulle organizzazioni terroristiche anticubane che a Miami trovano rifugio, denaro, aiuti e sostegno politico. Dalla capitale della Florida partono infatti le campagne terroristiche contro l’isola, che sono costate, dal 1959 ad oggi, un’invasione (fallita), 3478 morti, 2099 feriti, 294 tentativi di dirottamenti marittimi ed aerei, 697 atti terroristici, 600 tentativi di assassinio del suo leader, 1821 miliardi di dollari di danni diretti e dimostrati procurati all’economia dell’isola.

E’ quindi a Miami che l’azione di prevenzione cubana deve trovare un suo primo livello d’iniziativa. Percy Alvarado, guatemalteco naturalizzato cubano, per conto dei servizi di sicurezza di La Habana è stato infiltrato 22 anni nei gruppi terroristici anticubani. Alcuni di questi 22 anni, direttamente nella Fnca, la Fondazione Nazionale Cubano Americana. La lobby cioè che sovrintende, finanzia e organizza l’aggressione terroristica e politica contro Cuba e che influenza in modo determinante, grazie al suo potere economico ed elettorale, la politica statunitense verso l’isola.

Percy Alvarado ha svolto un ruolo prezioso nella difesa dell’integrità di Cuba, come altre centinaia di agenti che, a rischio della loro vita, hanno scoperto e trasmesso a La Habana informazioni preziose su piani terroristici che sono così stati evitati. Rientrato a Cuba, Percy Alvarado ha scritto diversi libri, tra cui “Confessione dell’agente Fraile” (ed. Achab,ndr) e “Riflessioni di un antiterrorista”, nei quali racconta la sua esperienza di infiltrato per conto di Cuba nelle organizzazioni terroristiche anticubane, cominciando proprio dalla FNCA, qui in Europa scambiata per una organizzazione politico-umanitaria con la quale celebrare convegni quali quello del 28-29 Ottobre del 2004 a Roma, alla presenza di esponenti del governo italiano.

Percy Alvarado Godoy
Percy Alvarado Godoy

D:Il vero volto della Fondazione.

R: La Fnca è una organizzazione che nasce come risultato della strategia anticomunista e anticubana creata per decreto presidenziale da Ronald Reagan e aveva come proposito quello di unire i settori più reazionari e conservatori dentro l’emigrazione cubana. Uno strumento attraverso il quale dirigere tutta la politica anticubana. La nascita della Fnca risponde al desiderio del governo USA di dirigere le sue azioni ostili contro Cuba e c’è piena collaborazione tra la Fnca e la CIA per sviluppare una guerra sporca contro l’isola. Questo è il motivo per cui nasce la Fondazione. Riuscirono a mettere insieme un gruppo di individui che riassumevano alcune caratteristiche fondamentali: grande potere economico dentro l’emigrazione cubana e un odio acerrimo verso la Rivoluzione.

Tutti i fondatori erano stati addestrati dalla Cia ed erano già stati impiegati non solo in azioni contro Cuba, ma nella repressione di diversi movimenti rivoluzionari nel mondo. Per esempio Pepe Hernandez era stato membro dell’esercito Usa per il quale interrogava i prigionieri in Cambogia. Un altro di loro, Luis Posada Carriles e altri ancora hanno un lungo curriculum di lavori svolti al servizio della Cia in Centro e Sud America. Nella prima decade degli anni ’80 la Fondazione si dedica fondamentalmente a sovvenzionare la guerra sporca, finanziando altri gruppi controrivoluzionari affinché realizzassero azioni contro Cuba.

Quando cade il campo socialista europeo, tra fine anni ’80 e inizio anni ’90, ovviamente le organizzazioni anticubane cercano di assestare il colpo di grazia alla rivoluzione cubana e la Fnca cerca un ruolo da protagonista. D.Cosa fece? Mantenne la sua faccia politica dedicata al lavoro politico dentro il Congresso Usa cercando di ingraziarsi più deputati e senatori possibili. Lo stesso Luis Zuniga mi raccontò di come stava convincendo un senatore a schierarsi contro Cuba a suon di regali da parte della Fnca. Ma mentre pubblicamente la Fnca mostrava il suo aspetto politico, clandestinamente organizzava un gruppo segreto paramilitare.

D:La missione.

R: Organizzare sabotaggi e attentati terroristici dentro Cuba. Ovviamente tutto doveva apparire come organizzato da settori delle Forze Armate, dell’Esercito e del Ministero dell’Interno in disaccordo con il governo rivoluzionario cubano. I nostri servizi di sicurezza hanno da subito scoperto l’esistenza del gruppo chiamato Frente Nacional Cubano. Uno dei compiti che mi venne affidato come agente dei servizi cubani fu quello di visitare Miami e scoprire cosa era realmente il Fnc. E’ stato facile, era il braccio armato della Fondazione Nazionale Cubano Americana, l’aspetto occulto della Fnca.

I leader dell’ala dura erano Jorge Mas Canosa, Pepe Hernandez, Alberto Hernandez e tanti altri ancora. In un incontro che ebbi con Luis Zuniga Rey, uno dei portavoce della Fondazione, supposto presidente di un “Partito per i diritti umani”, mi recluta affinché realizzi delle azioni violente dentro l’Isola. Mi dice chiaramente che questo è un lavoro segreto e che la Fnca non deve apparire come l’organizzatrice di queste azioni. Lui stesso riconosce che vari dirigenti sono coinvolti in questo sporco lavoro. Fu così che scoprimmo che la Fnca a partire dai primi anni ’90 è la protagonista dei principali attentati contro Cuba. Questi personaggi organizzarono una rete terroristica tra Miami e il Centro America.

La testa pensante e la parte economica era radicata in Florida mentre il braccio armato era in vari paesi centroamericani. Così si mossero vari dirigenti della Fondazione, fondamentalmente Armando Monzon Placencia, morto qualche anno fa, che in Centroamerica prese contatto con Luis Posada Carriles che a sua volta ebbe l’appoggio di un gruppo di diversi terroristi cubani che risiedevano in Honduras, Guatemala, Salvador e Nicaragua.

D: E l’intelligence USA?

R: Nei primi anni della Rivoluzione la maggior parte dei cubani che abbandonarono il paese furono reclutati dalla Cia. In questo caso Orlando Bosh, Luis Posada Carriles, Jorge Mas Canosa e un gruppo grande di questi cubani furono addestrati in distinti settori delle forze armate nordamericane all’uso di esplosivi, tecniche di contro-insurrezione e di comunicazione. Questo gruppo, come ti ho detto prima, è anche servito alla repressione di altri movimenti rivoluzionari. Per esempio Alfredo Domingo Otero, che nella Fondazione è stato il mio ufficiale diretto, colui cioè che si occupava del mio addestramento. Otero era il responsabile delle operazioni speciali del Frente Nacional Cubano, braccio militare segreto della Fnca.

Otero era stato negli anni ’60 il capitano della nave Rex, una delle tante imbarcazioni che utilizzava la Cia per attaccare Cuba. Il 23 dicembre del 1963 Otero preparò ed eseguì un’azione che causò la morte di diversi marinai cubani nell’Isola della Gioventù. Un’operazione pianificata dalla Cia che prevedeva la presenza di una nave madre, la Rex per l’appunto, dalla quale partivano delle lance rapide con uomini rana che piazzavano degli esplosivi. In quell’occasione provocarono la morte di quattro marinai cubani e il ferimento di altri 17.

Uno degli uomini rana che partecipò a quell’operazione era Orestes Hernandez, colui che anni dopo, nel 1997, venne catturato con due fucili telescopici calibro 50 nell’isola Margherita in Venezuela, mentre preparava un attentato a Fidel Castro. Otero fu colui che ha portò il denaro che serviva per finanziare l’attentato che a sua volta gli era stato dato da Pepe Hernandez. Sempre Otero mi ha riferì in varie occasioni che le informazioni che io gli passavo su Cuba, lui le girava ad altre agenzie degli Stati Uniti. Ti posso anche dire che c’era la possibilità che la bomba che io avrei dovuto piazzare al cabaret Tropicana a La Habana, potesse partire dal territorio degli USA e non dal Guatemala come avvenne.

Quando gli chiesi come fosse possibile, mi disse che non ci sarebbe stato nessun problema dall’aeroporto di Miami perché la Fondazione poteva garantire il passaggio di qualsiasi cosa.

D: Gli USA fingono di non sapere?

R: Non fingono, né potrebbero. Cuba ha avvertito frequentemente le autorità nordamericane sul terrorismo di Miami. Una volta un senatore nordamericano ha visitato Cuba. Fidel gli disse di questi piani. Il senatore al suo ritorno si riunì con Clinton e questi inviò a Cuba due funzionari del FBI. Cuba presentò una montagna di prove a questi funzionari. Successivamente inviammo un nostro funzionario dei Servizi che visitò il quartier generale del Fbi e consegnò ulteriori prove.

Ci aspettavamo che il governo nordamericano prendesse dei provvedimenti. Ma le pressioni della mafia cubana di Miami sono state più forti e non fecero niente. Cercammo incontri con la grande stampa americana. Io stesso sono stato intervistato da un giornalista del New York Times e fu il momento in cui il governo cubano decise di svelare la mia identità. Al giornalista raccontai molte cose sul mio lavoro a Miami e portai molte prove di quello che affermavo. Questo avvenne il 13 agosto 1998. Cosa fece il New York Times? Semplicemente non pubblicò assolutamente nulla. Cuba da molti anni ha consegnato dei dossier su quanto avviene in Florida, alle autorità competenti del governo di Washington.

Ma gli Stati Uniti al contrario hanno dato l’impunità a questi terroristi. Quale opzione rimane a Cuba? Difendersi, che è un diritto legittimo.

D: Quali sono i principali terroristi che vivono liberamente negli USA, protetti o meno dal governo?

R: Non si nascondono. Camminano liberamente per le strade di Miami, del New Jersey e di New York, con totale impunità. Rilasciano interviste, partecipano a trasmissioni televisive, minacciano Cuba e Venezuela con nuove azioni terroristiche. Per esempio Orlando Bosh Avila, molto conosciuto, ha promosso azioni criminali orribili come l’esplosione dell’aereo cubano nei cieli delle Barbados, è stato implicato direttamente nell’assasinio a Roma di Bernardo Leighton, organizzatore e partecipe dell’omicidio di Carlos Prats in Argentina.

Ha lavorato per i servizi segreti di Pinochet, partecipò in Nicaragua al tentativo di assassinio di Pascal Allende. Ha partecipato persino ad attentati nello stesso territorio nordamericano che costarono la vita a diverse persone la cui colpa era quella di propiziare un avvicinamento a Cuba. Arcinoto e conosciuto è Luis Posada Carriles, catturato in flagrante a Panama e recentemente amnistiato dalla ex Presidente Moscoso che, per 400 milioni di dollari, ha dato una spallata alla giustizia panamense. Questa signora ha liberato tre terroristi che, appena scarcerati, si sono rifugiati in Florida dove circolano liberamente per le strade di Miami.

Da alcuni giorni anche Posada Carriles si trova nel territorio Usa aspettando il perdono presidenziale da parte di G.Bush figlio, che senz’altro vorrà imitare il padre che diede il perdono presidenziale al terrorista Orlando Bosh Avila. Questi sono solo due dei tanti criminali che risiedono protetti nel territorio Usa. Un altro esempio è Rodolfo Frometa del Commando F4 che con Luis Garcia addestra mercenari per assassinare il Presidente venezuelano Chavez.

Assai singolare è il fatto che gli Stati Uniti hanno chiuso le loro frontiere per paura dell’infiltrazione di terroristi da altri paesi, mentre questi terroristi di origine cubana protetti dalla Fnca hanno libero accesso nel paese. Molti di loro continuano ad addestrarsi e tutti i giorni gli organi della sicurezza cubana ricevono avvisi e indizi sull’attività nemica che non si è mai fermata. Abbiamo prove che presto renderemo pubbliche su come si mantengono in attività questi piani terroristici contro Cuba.

D: L’intelligence cubana ti ha incaricato d’infiltrarti in queste organizzazioni per sventarli. Era lo stesso lavoro che stavano facendo i Cinque prigionieri cubani nelle carceri USA?

R: Il mio lavoro era identico a quello dei Cinque compagni. La mia infiltrazione è stato un percorso molto lungo. La Fnca mi ha visto come una persona capace di fare il mercenario. A Miami vengono partoriti tutti i piani di aggressione contro l’isola. Io sono testimone diretto e posso affermare che il terrorismo si fabbrica a Miami.

Ti dico questo perché ho partecipato alla preparazione di questi piani terroristici. A Miami e all’interno di questi gruppi controrivoluzionari abbiamo infiltrato uomini che lasciano le proprie famiglie, le proprie case, con l’unico scopo di informare il governo su azioni violente che questi terroristi preparano contro il popolo cubano. Questo era il lavoro che sia io che i Cinque compagni ora detenuti negli Usa svolgevamo. Grazie al mio lavoro di infiltrato potemmo sventare con il passare del tempo molti piani che sarebbero costati centinaia di vite umane. Nel mio caso la Fnca mi ha ordinato di assassinare Fidel Castro, di far esplodere centrali termoelettriche, raffinerie, ospedali e organismi ufficiali del governo.

Per 22 anni questo è stato il mio lavoro: prevenire tutto questo e salvare il popolo e il paese che mi ha adottato. Il mio stesso lavoro lo hanno fatto i Cinque eroi e così altre decine di compagni che hanno preso il mio posto e quello dei cinque. Cuba ha il diritto di difendersi se gli Usa non fanno nulla per fermare tutto questo.

D: I cinque, sostiene l’accusa, spiavano gli USA…

R: E’ falso. Mai, te lo giuro, ci è stato ordinato di infiltrarci in nessuna agenzia nordamericana, né in nessun luogo sensibile per la sicurezza nordamericana. Se poi vogliono dire che spiare il terrorismo cubano-americano è come spiare loro…La concezione nordamericana del terrorismo è ipocrita. E’ risaputo che non esiste un terrorismo buono e uno cattivo. C’è solo un tipo di terrorismo, quello che uccide vittime innocenti. Quindi come è possibile che gli Stati Uniti benedicano e diano totale impunità a queste persone, quando lo stesso governo USA si auto elegge come principale protagonista della lotta mondiale al terrorismo?

D: E’ la Fnca che detta la politica statunitense nell’area?

R: La Fnca è il Frankestein che ha creato l’amministrazione americana. Inizialmente la concepirono per usarla contro Cuba. Però la Fondazione è diventata potente. Ha cominciato a riunire gruppi di persone ed in un momento determinato si è convertita in una potente lobby capace di condizionare la politica nordamericana verso Cuba. Qualsiasi amministrazione che adottava una misura di avvicinamento nei confronti dell’isola veniva attaccata fortemente da questa lobby. Hanno sempre cercato di fare proseliti sia tra i repubblicani che tra i democratici per rafforzare la politica ostile contro Cuba.

Nel primo mandato di Bush è stato dimostrato che le elezioni furono corrotte e che la decisione finale fu presa in Florida, la farsa del conteggio delle schede ha tenuto banco per moltissimo tempo. Cambiarono la destinazione di molti voti e altrettanti scomparvero. Furono le elezioni più corrotte della storia degli Stati Uniti d’America. Chi svolse il ruolo di protagonista durante tutta questa messa in scena? La lobby anticastrista di Miami. Di conseguenza la mafia della Fondazione servì a Bush per essere eletto e questi doveva pagare il suo debito e la prima parte del favore è stato restituito con l’approvazione del “documento per la transizione democratica a Cuba”.

Il tema migratorio è sempre stato sentito e discusso da entrambi i paesi, e questo è fonte di forte critica a Washington, ma ogni volta che si cerca un punto di avvicinamento la mafia di Miami fa valere le sue pressioni sull’amministrazione USA. Di fatto sia la mafia di Miami che le varie amministrazioni succedutesi si sono usate a vicenda. Le varie amministrazioni hanno utilizzato la Fnca per le loro attività contro Cuba e questi personaggi hanno usato i governanti Usa sia per ricevere grandi somme di denaro per i propri benefici, che per condizionare la politica estera regionale e non solo.

Per la Ley di Ajuste Cubano adottata dal governo USA i cubani sono gli unici emigranti che possono entrare nel territorio nordamericano, mentre nella frontiera con il Messico tutti i giorni muoiono e vengono assassinati decine di immigrati. Basta che un cittadino cubano tocchi il suolo nordamericano è libero e gli vengono concessi tutti i benefici.

D: Che relazione esiste, se esiste, tra gli oppositori interni all’isola e le organizzazioni di Miami? C’è una relazione organica tra questi due lati dell’opposizione?

R: Una volta ho chiesto ai dirigenti della Fnca se realmente credevano di poter sconfiggere la rivoluzione cubana da Miami. Risposero di aver sempre avuto ben chiaro che una delle tattiche per promuovere un cambio a Cuba era creare un’opposizione interna. Sin dal principio del mio lavoro, uno dei compiti che mi era stato assegnato dalla Fnca era quello di trasportare soldi e mezzi per i dissidenti interni. Era il denaro che serviva per pagarli. Questa opposizione interna, fittizia, consiste in un gruppo di persone che riceve un salario e indicazioni su ciò che devono dire e fare. Con questi gruppi interni hanno lavorato sia i gruppi di controrivoluzionari che la stessa Cia.

Nelle vicende interne dei gruppetti di cosiddetti “dissidenti”, la Fondazione ha un ruolo importante. Quando la Fnca si divise in Consiglio per la Libertà di Cuba sia la Fnca che il CLC si disputarono il mantenimento di questi gruppi di mercenari a Cuba. Ho saputo che Luis Zuniga Rey, colui che mi ha reclutato e che va a Ginevra a parlare sui Diritti Umani violati a Cuba, oltre ad essere un terrorista è incaricato di reclutare un gruppo di persone all’interno dell’isola per dimostrare che esiste un’opposizione al governo legittimo. Anche altri della Fnca si dedicano a questo reclutamento.

Il proposito è chiaro: far credere a livello internazionale che ci sono gruppi di opposizione all’interno di Cuba. In questa direzione hanno giocato un ruolo importante tutta una serie di organismi che apparentemente sono Ong ma realmente sono entità guidate dalla Cia come per esempio Freedom House. Negli ultimi anni Cuba ha dato più volte prova che questi mercenari si recano nella Sezione di Interessi degli Stati Uniti a La Habana e ricevono soldi e mezzi per lavorare. Computer, apparecchi radiofonici, istruzioni su cosa dire e fare. Più menzogne riescono a far pubblicare o a dire, più il loro salario aumenta. Nei libri “I Dissidenti ” e “Il Camaleonte ” sono narrate le storie di questi mercenari e ti puoi rendere conto dello squallore morale dell’ambiente. Questi personaggi vivono e hanno vissuto molto meglio della media di un semplice cittadino cubano. Hanno fatto del lavoro di “controrivoluzionari” un modo per fare soldi e vivere meglio. Questo non è inusuale perché negli Stati Uniti i gruppi ostili a Cuba hanno sempre vissuto di questo.

Hanno vissuto con il denaro che il governo nordamericano gli ha sempre fornito e anche con la raccolta di fondi tra la popolazione di Miami ostile a Cuba. Però nell’isola inviano l’elemosina ai mercenari interni. Ai mercenari nell’isola arrivano 100 dollari al mese, la maggior parte di questi soldi finisce nelle tasche dei capi della Fnca. Ora con questo documento sulla “Transizione democratica a Cuba”, gli USA hanno destinato alla dissidenza circa 57 milioni di dollari. Dove andrà a finire questa ingente somma di denaro? Non arriverà mai alla supposta dissidenza. Ribadisco che il principale compito della Fondazione è creare da Miami un gruppo di oppositori dentro Cuba.

Ci hanno provato in tutti i modi, l’ultimo tentativo è stato creare il gruppo delle “Dame Bianche”, che sono le mogli, madri e sorelle dei 75 mercenari arrestati nell’aprile del 2003. Cuba, nel suo diritto stabilito dalla legislazione, diritto sovrano di ogni paese, ha preso alcune misure contro queste persone, misure legali. Questi mercenari sono stati arrestati e processati con prove evidenti. Cercano in tutti i modi e con tutti i mezzi di creare situazioni di crisi e di conflitto con la superpotenza del nord, con tutti i mezzi e le istruzioni che ricevono da Miami.

D: In Europa particolarmente vicino a loro risulta essere Aznar...

R: Aznar é gravemente compromesso con la Fnca. E’ noto che verso la fine degli anni ’90, al termine della sua campagna presidenziale, Aznar visitò Miami. Viaggiò nell’aereo personale della famiglia Mas Canosa, viaggiò in Nicaragua, Salvador e in altri paesi del centro America. Ha avuto numerosi incontri e ha ricevuto una grande somma di denaro dalla Fnca. In cambio Aznar e il Partito Popolare si impegnarono a promuovere una campagna anticubana in Europa. Realmente per lui è stato un buon affare dal punto di vista economico. Ma non gli ha portato fortuna dal punto di vista politico…

D: Una parte della sinistra europea ha preso le distanze da Cuba…

R: Ieri riflettevo con alcuni amici che contro Cuba è stata montata una campagna di nuovo terrorismo. Si tratta di terrorismo ideologico. Molto più dannoso del terrorismo che conosciamo, fatto con le bombe. Il terrorismo ideologico tratta di minare i vincoli e le relazioni tra la sinistra e cerca di deviare la realtà. Prendiamo il caso dei tre terroristi condannati a morte. Il governo cubano aveva ben chiara la sua posizione rispetto alla condanna a morte. Non siamo d’accordo con la pena di morte. Bisogna però vedere e conoscere il contesto cubano e l’ostilità del governo Usa contro Cuba.

In oltre quaranta anni di rivoluzione sono stati sequestrati più di 1900 aerei cubani e anche molte imbarcazioni. Appena i sequestratori mettono piede negli Stati Uniti sono ricevuti come eroi e la maggior parte degli aerei non vengono restituiti. Perché? Cercano di creare un conflitto migratorio tra i due Paesi per giustificare eventuali azioni di forza. Una prima prova c’era stata nel 1994, quando si creò un clima di tensione cercando di far credere che ha la situazione interna era gravissima.

In quel periodo ero in Florida insieme a Pepe Hernandez, uno dei dirigenti della Fnca e a Miami le tv e le radio dicevano che la popolazione dell’isola era scesa nelle strade e che i carri armati dell’esercito schiacciavano la rivolta popolare. La disinformazione era enorme, ma la gente urlava per le strade “criminali” “assassini”. Cosa avvenne veramente? Ci fu una piccola manifestazione di protesta di alcuni controrivoluzionari che distrussero le vetrine dell’Hotel Dauville e che vennero fermati dalla stessa popolazione che acclamò Fidel Castro appena questi giunse sul posto.

Gli Stati Uniti utilizzano una teoria chiamata della “pentola a pressione” e l’hanno usata diverse volte. Nel 1980 con i fatti del Mariel, nel 1994 con Guantanamo e pretendevano utilizzarla di nuovo nel 2003. Gli Stati Uniti a volte cooperavano e a volte facevano i furbi. Ai terroristi che avevano sequestrato gli aerei dopo alcuni giorni concedevano la libertà e la offrivano spudoratamente anche ai passeggeri che erano stati sequestrati. Il governo nordamericano si impossessava delle aeronavi e dei battelli. Cosa avvenne due anni fa? Cominciarono con il dirottamento di due aerei che volano dall’Isola della Gioventù. I sequestri avvennero con la forza, una volta con una granata minacciando la vita di tutti i passeggeri. Nel caso dell’imbarcazione di Regla presero in ostaggio armi alla mano vari passeggeri tra cui due turiste francesi.

Ci siamo trovati in una situazione molto complessa, un sequestro armato, molti ostaggi in pericolo di vita e Miami pronta a ricevere i dirottatori come eroi. Il governo cubano doveva mettere un freno a tutto questo. L’unica soluzione era prendere una decisione estrema, pur se costosa. Lo sapevamo che sarebbe stata tale. Doveva essere esemplare per mettere fine a una situazione che stava diventando incontrollabile, anche perché gli Stati Uniti, con la Ley de Ajuste Cubano, stavano propiziando tutto questo. I tre sequestratori sono stati processati secondo il codice penale del nostro paese e con tutte le garanzie del caso in accordo con le leggi cubane.

Abbiamo preso una decisione difficile, forte...

La condanna a morte in ottemperanza alle leggi dello Stato. Tutto questo è stato soppesato. Sapevamo che molte persone non avrebbero capito. Immediatamente in tutto il mondo, anche molti amici, hanno protestato contro la nostra decisione. Capiamo che il tema della pena di morte è molto sensibile e credo che Fidel e Felipe Perez Roque abbiano spiegato molto bene che fu una decisione che, controvoglia, fummo costretti a prendere.

D: A due anni di distanza continui a difendere quella decisione?

R: Sì, perché l’obiettivo era fermare i sequestri e ci siamo riusciti. Nessuno, tanto meno gli amici, può chiederci di rinunciare a difenderci, di esporre il nostro popolo al terrorismo e rimanere con le mani in tasca. Ti ripeto: per quanto non ci piaccia ricorrere a soluzioni estreme, avevamo bisogno di fermare l’ondata terroristica nell’isola e così è stato. Da quel momento non ci sono stati più sequestri. Come d’incanto tutto si è normalizzato e obbligammo il governo nordamericano a prendere una posizione rispetto ai sequestri di aerei e navi. Guarda che nella storia delle relazioni Usa-Cuba sono stati dirottati anche degli aerei dal territorio americano verso l’isola.

Come reagimmo? Arrestammo i sequestratori e in alcuni casi li estradammo, altro che concedergli la cittadinanza cubana! Immediatamente cessarono i sequestri. Noi informammo i governanti americani che se avessero continuato a mettere in libertà i sequestratori, il tema dell’emigrazione violenta verso gli Usa non avrebbe avuto soluzione e li ponemmo con le spalle al muro. La verità è che se il governo nordamericano avesse sin dal principio arrestato e condannato i sequestratori, molto probabilmente non avremmo eseguito le pene capitali.

D: I terroristi passeggiano per Miami e chi li combatte viene arrestato e condannato a pene abnormi…

R: Io sono tornato a Cuba quando è stato deciso che era utile al Paese. Loro torneranno perché abbiamo ragione. Le battaglie che abbiamo ingaggiato non le abbiamo mai perse...

NOTE BIOGRAFICHE

Percy Francisco Alvarado Godoy: Nato in Guatemala nel 1949, naturalizzato cubano. Laureato in Scienze Politiche. E' stato l'agente Fraile della Sicurezza cubana, infiltrato per 22 anni nell'ala terrorista della Fondazione Nazionale Cubano-Americana a Miami. Ha scritto diversi libri, tra cui “Cuba: confessione dell’agente Fraile” (ed. Achab), con il quale, raccontando la sua esperienza di infiltrato, ha ottenuto il Primo Premio "Testimonianza" nel Concorso "Aniversario de la Revolucion 2000" della Direzione Politica del Ministero degli Interni di Cuba. Attualmente lavora come specialista nel commercio internazionale.

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Percy Alvarado Godoy

Ramón Pardo Guerra

Intervista al Generale di Divisione delle Forze Armate Rivoluzionarie Ramón Pardo Guerra

di M. Papacci

D: Chi è oggi Ramón Pardo Guerra?

R: Oggi lavoro al Ministero delle Forze Armate come ispettore principale delle FAR (Fuerzas Armadas Revolucinarias). Ho conosciuto il Che nei primi mesi del 1957 pochi giorni dopo la battaglia dell’Uvero, quando il Comandante Fidel Castro gli affidò la missione di proteggere e curare i feriti di quella battaglia. Nell’accampamento si trovavano, tra gli altri, il comandante Juan Almeida e Vilo Acuña che poi morirà in Bolivia a fianco del Che. Loro cercavano un luogo sicuro e finirono per fermarsi a casa di mio fratello, vicino a dove viveva mio padre e dove mi trovavo io in quel momento. In sintesi è stato questo il mio primo contatto con il Che.

D: Quando, lei e i suoi fratelli, decideste di lottare contro la tirannia di Batista e perché?

R: Come ti ho detto poc’anzi, da quel preciso momento ci siamo incorporati alla guerriglia. Dopo aver saputo dello sbarco di Fidel a Playa de las Coloradas. A partire da quel momento e una volta incontrati, per primo s’incorpora mio fratello Israel e parte con la colonna di Fidel. Io rimasi in una base di rifornimento, e questa fu la definitiva incorporazione nella guerriglia.

Ramón Pardo Guerra
Ramón Pardo Guerra

D: Quanti fratelli Pardo hanno lottato contro la tirannia di Batista?

R: Nella Sierra lottammo in sette, uno è morto il 5 gennaio 1958 nella battaglia di Dos Palmas nelle vicinanze di Santiago di Cuba in una delle prime azioni che mise in atto l’esercito ribelle in quell’epoca in Oriente.

D: Che impressione ha avuto del Che quando lo ha incontrato per la prima volta?

R: L’impressione che mi ha dato il Che è stata quella di un uomo normale, avevamo poche referenze su di lui e su Almeida, si sapeva che il Che era un comunista e Juan Almeida un grande negro. Nella prima conversazione che ho avuto con il Che ho potuto constatare che era un uomo di grande cultura rispetto a noi altri che eravamo contadini. Lui era un medico che veniva a lottare qui nel nostro paese in condizioni molto difficili e in una situazione sfavorevole per la guerriglia. Nonostante il fatto che fosse asmatico, con crisi frequenti in quel periodo, il suo spirito era esemplare, come la sua volontà ed il suo stoicismo. Realmente instaurammo quasi subito buone relazioni e questo ci ha uniti durante tutta la campagna della Sierra, dell’offensiva, dell’invasione fino ad arrivare all’Avana. Dopo il trionfo della Rivoluzione per motivi di lavoro ci dividemmo.

D: Lei ha conosciuto Camilo Cienfuegos. Può raccontarci qualcosa sul "Signore dell’Avanguardia"?

R: Ho conosciuto Camilo. Lui era incorporato nella colonna del Che che in quel periodo faceva ancora parte della Colonna Numero Uno guidata dal Comandante Fidel Castro. Questo ci facilitò il contatto. Come il tipico cubano era un compagno molto espressivo, molto amico, un tipo gioioso. Successivamente mi toccò servirgli da messaggero e combattemmo insieme perché era il capo dell’avanguardia del Che. Gli consegnai molti messaggi del Guerrigliero Eroico e per questo motivo ho avuto molte relazioni di lavoro con Camilo. Poi lui iniziò la "Guerra del Llano" (pianura) come parte della colonna del Che, e mio fratello Samuel combatté con Camilo. Abbiamo avuto rapporti da comandante a subordinato, però anche di grande amicizia e cameratismo. Lui scherzava molto con il Che, anche noi a prescindere dalla sua autorità. La sua scomparsa ci ha addolorato molto e ancora oggi la sua presenza ci manca.

D: Quest’anno si celebra il 40° anniversario della scomparsa di Camilo Cienfuegos. Che cosa ha lasciato Camilo al suo popolo?

R: Camilo ha lasciato il suo esempio. Un esempio vivo che continuerà ad essere tale. Lo definirei come dissero Fidel e il Che: "Camilo è Camilo, Camilo era l’immagine del popolo". Questo vale per la gioventù ma anche per noi. A prescindere dal fatto che lui morì giovane, la sua vita fu molto intensa, una vita che si è forgiata attraverso una dura gioventù, attraverso i suoi viaggi all’estero, negli Stati Uniti e in Messico, fino ad unirsi, fu tra gli ultimi, al futuro gruppo guerrigliero. E fu tra questi uno di quelli che più si distinse, fino a diventare uno dei grandi artefici di questa Rivoluzione. Nonostante non avesse studiato, nella lotta dimostrò di essere un uomo molto intelligente, molto martiano, autodidatta nei suoi studi. Questo è un esempio eccellente per tutti noi.

D: Cambiamo tema. Lei è stato responsabile di varie missioni internazionaliste in Africa. Cosa pensa della lotta guerrigliera del Che in Congo?

R: Il fatto che il Che sia andato a lottare in Congo non è altro che una grande manifestazione del suo grande spirito internazionalista, come lo rappresenta il fatto che è venuto a lottare a Cuba. Nonostante le difficoltà che avrebbe potuto trovare in quel paese africano, non ha esitato nella scelta di tornare a lottare. Anche nel caso del Congo è stato un esempio di sacrificio e di volontà nella lotta. Hanno fatto il massimo sforzo, lui ed il resto dei compagni che lo hanno seguito. Non ho avuto l’opportunità di stare con lui, però conosco abbastanza gli sforzi che sono stati fatti. E’ una pagina brillante in più che ha scritto nella storia della sua vita e che considero molto bella e molto sentita nei confronti di un popolo che ha sofferto molto in quel periodo e che continua a soffrire. Lui decise di combattere a fianco del popolo congolese per farlo uscire dall’orribile situazione in cui si trovava.

D: Può dirci a quali missioni internazionaliste ha partecipato?

R: Ho partecipato a due missioni in Angola. La prima volta sono stato dal 1980 al 1983. Tre anni comandando un reggimento di fanteria vicino alla frontiera con la Namibia. Durante quel periodo partecipammo a tutte le campagne; fu un’esperienza bellissima per l’aiuto che offrimmo al popolo angolano. Successivamente sono stato inviato come secondo capo della missione cubana in Angola, a fianco dell’esercito e del popolo angolano.

D: Lei ha conosciuto qualcuno dei compagni che lottarono con il Che in Bolivia?

R: Ho conosciuto Vilo Acuña, ‘Joaquim’ in Bolivia, Jesus Suarez Gayol, ‘El Rubio’, Eliseo Reyes, ‘Capitan San Luis’, Sanchez Piñares, ‘Marcos’, e molti altri, però quello a cui sono stato più unito nella guerra, fu Vilo Acuña. Lo conobbi dopo la battaglia dell’Uvero nella "Comandancia” del Che. Te ne ho parlato all’inizio di questa intervista. Vilo fu il capo della retroguardia nell’offensiva guidata dal Che; erano presenti anche San Luis e Olo Pantoja. Abbiamo avuto la possibilità di stare uniti come soldati e ufficiali e di combattere uniti in quella lotta.

D: Che ricordi ha di quei compagni?

R: Degli ottimi ricordi. Uomini molto umili, esemplari nella lotta. Molti erano contadini; Eliseo Reyes era molto giovane, oggi avremo avuto la stessa età.

D: Ho letto il libro di Emilio Surí Quesada "El mejor hombre de la guerrilla"( “Il miglior uomo della guerriglia”), in cui si narra la storia di questo giovane capitano; può raccontarmi qualcosa di lui?

R: Ci conoscemmo nella Sierra alla fine del 1957 ed ebbe l’incarico di portare i messaggi del Che, compì molte missioni in pianura. Era di un paesino che si chiama San Luis, nelle vicinanze di Santiago. Un ragazzo valoroso, umile, disciplinato, gran lavoratore; diventammo ottimi amici ed è sempre stato un gran combattente. Dopo il trionfo della Rivoluzione prestò servizio al Ministero dell’Interno fino a quando non fu scelto dal Che per andare in Bolivia. In quell’occasione si comportò come il miglior uomo della guerriglia, come lo definì il Che. Continuerò a ricordarlo con molta stima.

D: Se lei potesse rivolgersi ai giovani italiani, come definirebbe in sintesi Camilo, il Che e Fidel?

R: Direi che l’esempio dei tre va seguito non solo per ciò che rappresentano, ma bisogna imparare a studiarli dall’adolescenza e la gioventù e seguire la traiettoria che hanno indicato con i loro principi rivoluzionari. Con la loro lealtà, fedeltà al popolo, per la loro responsabilità di fronte alla storia, nella lotta che hanno sviluppato non solo per il nostro popolo, ma anche per tanti altri. L’esempio del Che, che ha dato la sua vita, nonostante avesse acquisito una certa posizione a Cuba per andare a lottare in Africa e poi in Bolivia. Si è sovrapposto a tutte le malattie, per questo motivo consideriamo il suo esempio vivo e grande, non solo per la gioventù italiana e per quella cubana, ma essenzialmente per la gioventù mondiale. Sono stato poco tempo fa a Roma e ho avuto l’occasione di vedere l’affetto che avete nei confronti del Che. Questo ci inorgoglisce molto.

D: Perché è così attuale il pensiero del Che a più di 30 anni dalla sua morte?

R: Penso che sia molto attuale perché la causa per cui si è battuto trent’anni fa, e per la quale ha dato la vita, è la stessa per cui ci battiamo oggi. Una battaglia più dura, più raffinata, con altre tecnologie, con più modernità e con i mezzi di propaganda che ai tempi del Che non esistevano. Il nemico è sempre lo stesso, ha cambiato le forme ed è più forte che mai. I metodi di lotta, di denuncia del Che, sono applicabili anche ai giorni nostri.

D: Perché l’imperialismo, secondo la sua opinione, non ha potuto sconfiggere l’esempio che rappresenta Cuba nel mondo di oggi?

R: Non lo hanno potuto sconfiggere e non lo sconfiggeranno mai, perché l’esempio di Cuba non è solo l’esempio della Rivoluzione del 1959. E’ un esempio che va visto attraverso la nostra lotta indipendentista, che segue un filo retto di una lotta patriottica, rivoluzionaria, che non si sottomette a nessun giudizio. Per questo motivo lottiamo e questo comportamento coraggioso di fronte alla potenza più forte del mondo che loro non ci perdonano.

NOTE BIOGRAFICHE

Ramon Pardo Guerra: Nato il 31 di agosto 1939 nella provincia di Oriente. Ha partecipato alla lotta rivoluzionaria contro la tirannia batistiana, incorporato, il 6 agosto di 1957, nella Colonna. n.1 dell'Esercito Ribelle, dove, per i suoi meriti in combattimento, raggiunse i gradi di capitano. È membro del Comitato Centrale del Partito Comunista di Cuba e Deputato all'Assemblea Nazionale del Poder Popular. Ha occupato, tra altri, i seguenti incarichi: Capo dell'Esercito d'Occidente, Sostituto del Ministro delle FAR per l'Armamento e la Tecnica ed Ispettore Principale delle FAR. Ha partecipato alla missione internazionalista nella Repubblica Popolare dell'Angola. Capo di Stato Maggiore della Difesa Civile, dal 2002.

 

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Ramón Pardo Guerra

Teófilo Stevenson

Intervista a Teófilo Stevenson, 3 volte campione olimpico di pugilato, attualmente Vicepresidente della Federazione Cubana di Boxe

di S. Russo

D: Parlando della sua infanzia, da quale contesto sociale proviene il giovane Stevenson, il futuro campione olimpico e mondiale?

R: Mia madre era casalinga, mio padre era scaricatore di porto. Non posso dire che la mia famiglia fosse povera, ma nemmeno che appartenesse alla classe media. Provengo da una famiglia umile, di lavoratori. Mio padre lavorava nel periodo del capitalismo e a quell’epoca, certo, Cuba non disponeva del sistema sociale di cui dispone oggi, a sostegno di tutti i cittadini.

Teófilo Stevenson
Teófilo Stevenson

D: Secondo lei, qual‘è il segreto che rende il lavoro di Alcides Sagarra così efficace da produrre campioni del suo calibro, del calibro di Emilio Correa, di Armandito Martínez, di Jorge Hernández e di tanti altri?

R: Non credo che sia questo. Alcides, come gli altri, fa parte del Movimento Sportivo Cubano, dove si è lavorato per produrre le risorse umane dello sport nazionale, per creare un Istituto di Medicina Sportiva, per creare un Istituto di Cultura Fisica, e scuole dove poter studiare e far crescere il livello di conoscenza, in modo da ottenere tutti questi risultati. Senza questo lavoro a monte, non sarebbe stato possibile per nessuno di noi raggiungere i successi riconosciuti in tutto il mondo. Non è quindi un risultato del lavoro di una sola persona, ma del programma messo a punto dalla Rivoluzione, che è in grado di far crescere e migliorare lo sport, la salute, l’educazione, la cultura, e a cui tutti i cubani possono accedere gratuitamente, senza distinzione alcuna.

D: Dunque Sagarra è prodotto di questa politica?

R: Indubbiamente lui ha lavorato bene, ma ad ognuno di noi la Rivoluzione ha dato la possibilità di esprimere il proprio talento. Ed è giusto che si riconosca qual’è la base, il meccanismo che produce tanti campioni a Cuba, ognuno nel suo settore.

D: Come vede il suo futuro, e quali sono i suoi progetti futuri?

R: Non ho mai smesso di fare progetti. Lavoro per mantenere il livello raggiunto dal pugilato cubano nel mondo. Da quattro anni sono Vicepresidente della Federazione Cubana di Boxe. E ogni giorno mi impegno per superarmi.

D: Oltre al suo lavoro, come passa il suo tempo libero?

R: Con la mia famiglia, con gli amici ed appoggiando sempre la Rivoluzione e il nostro Comandante in Capo Fidel Castro.

D: Ma oltre allo sport ha qualche altra passione?

R: Certo, mi piace la musica, come a tutti i cubani. È importante poter allentare la tensione, la grande responsabilità, l’estremo impegno sul lavoro, rilassandosi con della buona musica.

NOTE BIOGRAFICHE

Teófilo Stevenson, nato a Cuba il 29 marzo del 1952, ha fatto la storia della boxe dilettantistica. Ha vinto tre titoli olimpici (Monaco, 1972; Montreal, 1976; Monaco, 1980) e due mondiali. Ed assieme a Lázló Papp è considerato uno dei più grandi pugili olimpici della sotria. Nonostante le molteplici ed allettanti offerte ricevute non passò mai alla carriera professionistica. All’offerta nel 1972, di un milione di dollari, da parte di Angelo Dundee, manager di Clay-Alì, Teófilo rispose: “La ringrazio, signore, ma io ho nove milioni di cubani e per me valgono più di un milione di dollari. Preferisco essere rosso che ricco”.

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Teófilo Stevenson
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Teófilo Stevenson

William Galvez

Intervista a William Galvez, generale delle Forze Armate Rivoluzionarie

di M. Papacci

D: Quando e perché hai deciso di unirti alla lotta contro la tirannia di Batista?

R: Generalmente a Cuba è sempre esistito un precedente per quanto riguarda la lotta patriottica. Il movimento degli studenti cubani ha risposto sempre, in un modo o nell’altro, a tutti gli atti anticostituzionali messi in atto dai governi di turno, contro il popolo e la classe lavoratrice. Una gran parte di noi ha avuto antenati che hanno lottato nella guerra d’Indipendenza. Ricordo mio nonno, veterano della guerra d’Indipendenza, che mi raccontava le sue esperienze. Quando si produsse il 10 di marzo, ero uno studente del Politecnico di Holguin e spontaneamente cominciammo a protestare contro il colpo di Stato.

William Galvez
William Galvez

Per noi la costituzione esistente era una burla. Eravamo coscienti che tutti i politici di turno fossero dei corrotti, dei ladri, dei buoni a nulla. Erano degli assassini, perché mandarono ad uccidere un dirigente sindacale di nome Jesus Menendez, leader comunista. In quel periodo Cuba non faceva eccezione, in America Latina, per quanto riguardava la falsa democrazia. In quel periodo c’era un leader politico che si era distinto dagli altri, Chibas, del Partito Ortodosso, ma non potè mettere in pratica il suo progetto politico perché era circondato da latifondisti, banchieri, politicanti che si unirono al carro dei corrotti. Disgraziatamente Chibas si suicidò per non aver potuto rispondere ad una denuncia provocatoria orchestrata dai suoi nemici; era un tipo troppo impulsivo.

Però eravamo certi che il suo partito avrebbe vinto le elezioni. I successivi governi, dal 1944 al 1952 erano totalmente corrotti, così come nel 1933 ci incontrammo nella Rivoluzione che "sparì in una pallina" come affermò Raul Roa, riferendosi al fatto che tutti quei governi si finanziavano con le case da gioco. Nel mio libro CAMILO EL SENOR DE LA VANGUARDIA tratto in forma più ampia di quel periodo. Quando si produce il golpe di Batista, sorge una nuova generazione di giovani che fanno loro gli ideali del nostro Josè Martì. Noi cubani siamo i continuatori della dottrina di Martì, di Maceo, di Gomez e di tutti i grandi patrioti che lottarono nella seconda repubblica, cominciando da Mella, Guiteras, Ruben Martinez Villena. A Cuba è sempre esistita un’avanguardia a volte piccola, a volte un poco più grande, che ha lottato contro la corruzione.

Batista era già stato nelle alte sfere del potere dal 1944 al 1952, ben 11 anni, e noi pensavamo che tutti i politici che erano stati estromessi in quel lasso di tempo dal potere con il golpe, avrebbero fatto qualcosa. Da quel momento cominciarono a crearsi le prime organizzazioni rivoluzionarie, o meglio, prima che noi formassimo il M26/7, si formarono organizzazioni come la Triplice A, la Azione Liberatrice ed altre. Ti posso garantire che tutte queste organizzazioni giocavano a fare la rivoluzione. Mi spiego meglio: cercavano coalizioni in cui militare e speravano in un futuro vittorioso, in realtà non fecero niente, per poi accampare determinate pretese. Finalmente compare un certo Fidel Castro all’Havana, in silenzio come predicava Martì, che organizza un’azione molto selettiva.

Io mi trovavo ad Holguin e militavo in un’organizzazione nella quale Fidel non aveva molta fiducia e di conseguenza non eravamo a conoscenza di quello che si stava preparando a Santiago. Ti dico queste cose perché chissà se Fidel avesse contato su più uomini, soprattutto della zona orientale dell’isola, forse l’esito dell’azione del Moncada poteva essere diverso. Però in fondo fece bene così perché altrimenti rischiava di essere scoperto. Questo fu il Moncada. Fino al 1953 c’era stato un grande desiderio di lotta ma con poche possibilità. L’esempio di Fidel e dei moncadisti fu l’input che svegliò la gioventù rivoluzionaria che era disposta a giocarsi la pelle per fare la rivoluzione. Fidel in quel periodo non era conosciuto in tutta Cuba, sicuramente lo era all’Havana. Decisi di trasferirmi a Santiago di Cuba per lottare contro la tirannia e qui la mia partecipazione fu molto più attiva della precedente ad Holguin.

Nella città ribelle operava un ragazzo, Frank Pais, leader di una organizzazione giovanile molto attiva nelle manifestazioni antibatistiane; al principio militai nell’organizzazione del fratello di Frank che si chiamava Josuè Pais. Quando Batista concesse l’amnistia politica, cercando di dimostrare un falso cammino verso la democrazia, non voleva concederla ai moncadisti e per questo motivo ci furono diverse pressioni, fino a quando non cambiò idea.

Fidel venne messo in libertà, ma prima di andare in esilio gettò le basi per il futuro Movimento 26 di Luglio, nel quale confluirono molti giovani. Molti di questi seguirono Fidel in esilio. Frank Pais inizialmente non aderì al M26/7 perché non credeva che Fidel fosse in grado di fare la lotta armata. Quando si rese conto che così non era, la sua organizzazione, Azione Rivoluzionaria, confluì nel M26/7 e Frank ne divenne il leader a Santiago de Cuba. Nel frattempo noi studenti delle scuole superiori organizzammo molte manifestazioni, scontri di piazza e piccoli attentati, cercando di causare più danni possibili al governo e meno fastidi possibili alla popolazione. Sia Fidel Castro che Frank Pais si organizzarono. Si produsse l’episodio del 30 novembre e noi che militavamo nelle file giovanili del 26/7 eravamo pronti all’azione.

Purtroppo le armi non bastavano per tutti ed io, essendo noto alla polizia, venni arrestato. Rimasi prigioniero per 6 mesi, la mia causa venne unita a quella del 30 Novembre e ad alcuni moncadisti. Scontata la pena insieme ad altri compagni entrai in clandestinità. Nel mio libro SALIDA 19 racconto tutti questi episodi. Ricostruimmo il M26/7 ad Holguin. In quel periodo avvenne lo sbarco del CORINTHIA e tutti quei compagni vennero trucidati. Noi per rappresaglia assassinammo il capo della polizia di Holguin che aveva represso nel sangue ogni tentativo di rivolta contro la tirannia. Dopo questo episodio decisi di salire sulla Sierra Maestra.

D: Finalmente arrivi nella Sierra. Dopo esserti unito a quello che era l’Esercito Ribelle, quando hai conosciuto Camilo Cienfuegos e il Che?

R: Ho avuto la fortuna di conoscere prima il Che. Devi sapere che per unirti ai ribelli dovevi avere un documento. Io non ne avevo nessuno e questo mi costò molta fatica per farmi accettare. Fortunatamente decisero per il sì e nel primo accampamento dove venni inviato, incontrai il Che. Per il fatto di appartenere al 26/7 di Holguin e per le azioni che avevo condotto, avrei dovuto andare nella colonna di Fidel Castro, invece rimasi per tre settimane nel gruppo del Che. Potei conversare molto con lui. All’epoca avevo delle posizioni di sinistra, avevo delle inclinazioni verso l’ideologia marxista, però sentivo che mi mancava lo studio; il Che in questo mi aiutò molto. In quella stessa occasione conobbi Camilo. Poco tempo dopo mi mandarono nel gruppo di Fidel e qui venni integrato in un plotone come semplice soldato.

D: Che impressione ti fecero questi due futuri eroi della rivoluzione?

R: Voglio dirti una cosa, noi avevamo già un’idea di coloro che si trovavano in montagna. Chiaramente Raul, Fidel, Ramiro e Juan Almeyda erano persone molto conosciute, così come tutti quelli del Moncada. Però del Che si parlava molto. L’argentino che, pur essendo medico, veniva a lottare qui a Cuba, asmatico, ma con una volontà di ferro, secondo quello che ci raccontavano coloro che si erano addestrati con lui in Messico. Quando mi trovavo in clandestinità e aiutavamo i ribelli che scendevano dalla Sierra per curarsi o per compiere determinate missioni, gli domandavamo come era la situazione in montagna e ci rispondevano che già alcuni di loro si erano messi in luce per le loro qualità di combattenti e fra questi sempre c’erano il Che e Camilo. Però Fidel era sempre il più grande in tutto.

Tutte queste cose ti invogliavano a conoscerli e destavano in noi molta curiosità. Il Che mi ha dato l’impressione di un uomo molto convinto di quello che faceva, un uomo di una comprensione molto grande-si accorse immediatamente delle difficoltà che incontravo nel camminare in montagna, sia per il mio stato fisico, sia per il peso del mio zaino. Lui montava un mulo per via di una ferita ad un piede, fece una sosta per farmi riposare una notte. Giocavo a scacchi con lui e siccome non ero bravo a volte mi faceva vincere. Era incredibile il rispetto che noi tutti avevamo per lui Di Camilo ti posso dire che inizialmente l’ho conosciuto di sfuggita. Si portava dietro la fama del cubano a cui piaceva scherzare molto, ma anche di combattente formidabile. Una volta mi disse che era molto preoccupato perché aveva un terribile mal di denti e che il Che avrebbe dovuto estrargli un dente. Gli dissi di non preoccuparsi perché il Che era un bravo medico. Mi rispose che lo sapeva, non aveva paura del dolore bensì del pericolo che questi gli estraesse un dente sano.

Tutti parlavano della ottima relazione che esisteva tra i due. Tutti dicevano che il Che era molto esigente - era vero - però ti posso dire che tutti i capi che non sono esigenti, non possono avere questo incarico; anche Camilo era così. Mi ricordo che nei momenti di riposo - pochi per la verità - il Che teneva occupati i suoi uomini facendoli studiare o curava i contadini malati. Nell’accampamento di Camilo mi ricordo dell’attenzione particolare che egli aveva per un gruppo di ribelli che si dedicavano nei momenti di riposo a rappresentazioni teatrali, a volte era lui stesso che scriveva i testi. Tutto questo era molto istruttivo, cosi come il discutere sulle notizie che ci giungevano attraverso la radio e i pochi giornali che arrivavano in montagna.

Dopo questi brevi momenti che avevano attirato la mia attenzione, venni inviato nel gruppo di Fidel. Lo scopo di tutti noi ribelli era quello di lottare al suo fianco e potrai immaginare la mia emozione nell’incontrarlo di persona. Fino a quando si produsse l’offensiva rimasi nella prima colonna. Successivamente tornai nella guerriglia agli ordini di Camilo, nella futura Colonna Invasora. In questa venni nominato capitano auditorio del 2° plotone grazie anche al fatto che avevo un poco più di cultura degli altri combattenti. Cominciai così la marcia verso La Habana al lato di Cienfuegos.

D: In che cosa si differenziava caratterialmente e militarmente il Che da Camilo?

R: Bene, il Che lo disse, ebbe l’onore di scoprire Camilo. Questi era un tipico simpatico, giocoso. Ci sono cubani a cui fai uno scherzo e non si arrabbiano, altri non sono così e questo a volte gli ha creato non pochi problemi. Quelli che non accettavano i suoi scherzi passavano a lottare in altre colonne. Come avrai potuto notare i due avevano un carattere completamente differente. Nella pratica non era così. Il Che per alcuni versi era più introverso di Camilo. Questi era capace di arrivare qui ed entrare subito in confidenza, parlando a voce alta come se ti conoscesse da molto tempo; il Che era molto più pacato.

Camilo, fondamentalmente era come noi. Gli uomini agli ordini del Che, lo rispettavano per il suo carattere allegro, mentre non potevano prendersi certe confidenze con il loro comandante. Il Che mise per iscritto che Camilo, dopo uno scontro a fuoco nel quale il Che aveva perso il suo zaino ed era rimasto senza niente da mangiare, gli offrì la sua razione di latte condensato. C’è una specie di legge della sopravvivenza quando si lotta in montagna, ma Camilo se ne infischiò e divise con il Guerrigliero Eroico la sua razione alimentare. Il Che non considerava corretto l’atteggiamento troppo giocoso di Camilo però glielo permetteva, perché riuscì a vedere in lui un futuro capo guerrigliero. Ricordati che il Che è sudamericano, quindi ha un’influenza più europea, più fredda caratterialmente. Noi siamo latini, di origine spagnola, quindi molto più allegri. Il Che è il primo spedizionario del Granma che viene nominato Comandante, era inizialmente tenente medico.

Al principio Camilo si trovava a combattere nel gruppo di Fidel Castro, ma il Che lo volle nel suo gruppo. Spesso, quando Camilo era in vita, si rivolgeva al Che chiamandolo "mi profesor" questo ad indicare chi gli aveva dato lezioni nella Sierra. E’ stata un’amicizia bellissima, esemplare, da portare come esempio quando si vogliono sottolineare certi valori. Ancora oggi non possiamo dire chi dei due si rispettava di più. Uno scopo fondamentale univa questa amicizia, fare la rivoluzione, ed era questo quello che ci ha unito e che unisce tutt’oggi il nostro popolo.

D: I giovani italiani conoscono il Che per la sua storia politico-militare, di dirigente e di combattente internazionalista, però non conoscono Camilo Cienfuegos. Puoi raccontarci brevemente chi era EL SEÑOR DE LA VANGUARDIA?

R: Per prima cosa voglio dirti che lui proveniva da una famiglia umile, operaia, di genitori spagnoli. Camilo era il terzo di tre fratelli. Don Ramon e sua moglie Emilia educarono i figli in maniera esemplare. Ossia rispettosi del prossimo, amore per lo studio, per la famiglia e propensi alla solidarietà. Nella casa della famiglia Cienfuegos Gorrarian si respirava un’aria di gente onesta, seria sotto tutti i punti di vista. Gli altri fratelli si chiamavano Humberto, che è scomparso recentemente, e Osmany, entrambi hanno lottato per la rivoluzione. La difficile situazione economica della famiglia li portò spesso a cambiare casa. Possiamo dire che il giovane Camilo crebbe con delle difficoltà, ma non arrivò mai all’eccesso di fare l’elemosina né il lustrascarpe, cosa molto corrente tra i giovani cubani dell’epoca pre-rivoluzionaria.

Era un giovane con molti interessi, gli piaceva molto praticare lo sport e divertirsi con i suoi amici. Un giovane sano ma con una inquietudine di carattere sociale e politico. Prima del golpe del 1952 partecipò ad una manifestazione contro l’aumento del biglietto per i mezzi di trasporto. Partecipò alla manifestazione dove vennero inumati i resti del leader sindacale assassinato a Santiago de Cuba, Jesus Menendez. Voglio ancora tornare sul periodo giovanile. Quando era studente della scuola primaria, veniva sempre scelto per le attività di carattere patriottico. Quando passò all’ottavo grado, aveva una certa inclinazione per le arti plastiche, voleva essere uno scultore. Si iscrisse ad una scuola vicina alla San Alejandro.

Con l’aggravarsi della situazione economica della famiglia iniziò a lavorare come commesso in un negozio d’abbigliamento maschile e di conseguenza abbandonò gli studi. Questa cosa lo segnerà per tutta la vita. Camilo si conquistò subito il posto fisso, per i suoi modi di fare, simpatici e coinvolgenti. Quando avvennero gli scontri del 10 marzo, gli studenti universitari diffusero un appello per difendere l’università, Camilo si schierò immediatamente al lato degli studenti.

D: E’ in questo periodo che emigra verso gli Stati Uniti?

R: Sì. Per aiutare economicamente ancora di più la sua famiglia, decise di emigrare insieme ad un suo amico d’infanzia negli States. Gli concessero un visto turistico per soli 29 giorni. Passati questi, risiedette illegalmente come clandestino. Il fatto di essere negli USA non gli fece dimenticare quanto stava succedendo a Cuba. Iniziò così a scrivere degli articoli su un giornale sostenuto da un gruppo patriottico. Fu intervistato da una radio locale, partecipò a picchetti di protesta contro le visite dei tiranni sudamericani negli Stati Uniti e manifestò in favore della richiesta di amnistia per i prigionieri politici a Cuba. Il fatto di essere illegale, lo preoccupava. Fortunatamente parlava un discreto inglese e per questo motivo spesso lo scambiavano per un portoricano. Dal 1953 fino al 1955, quando venne arrestato, visse negli States, successivamente fu espulso. Camilo prese coscienza che bisognava lottare contro la dittatura di Batista, però non aveva chiaro il metodo e non conosceva bene i fatti del Moncada.

Quando tornò a Cuba, si rese conto che i fratelli e gli amici più stretti stavano lottando contro la dittatura. Durante la sua permanenza sull’isola, lesse LA STORIA MI ASSOLVERA’ e ascoltò la denuncia che Fidel fece all’uscita dal carcere. In quel momento capì quale sarebbe stata la sua forma di lotta. Il 7 dicembre del 1955 fu ferito durante una manifestazione studentesca. Il 22 gennaio 1956 partecipò ad un'altra manifestazione per ricordare Josè Martì, venne malmenato e arrestato dalla polizia. A questo punto non gli interessava più risolvere i suoi problemi economici, voleva unirsi alla causa di Fidel Castro. Ritornò negli Stati Uniti per guadagnare un po’ di soldi, per poi trasferirsi in Messico. Il suo dovere adesso era quello di lottare per la liberazione di Cuba, compiere con la lotta, quel cammino educativo che la sua famiglia gli aveva dato.

D: Cosa succede dopo questa presa di coscienza?

R: Dagli Stati Uniti si diresse in Messico e qui prese contatto con un suo amico che aveva preso parte al Moncada, si chiamava Reynaldo Benitez. Non fu facile farsi accettare nel gruppo dei partenti perché lui non militava in nessuna organizzazione antibatistiana. Reynaldo Benitez e altri due amici riuscirono a farlo accettare. Nel mese di novembre del 1956 si imbarcò insieme ad altri 82 uomini nel Granma, come semplice soldato. Dopo lo sbarco fu tra quelli che si salvarono dopo la battaglia di Alegria de Pio. Nel suo gruppo erano presenti Juan Almeyda, Ramiro Valdez, Pancho Gonzales, il Che e Reynaldo Benitez ed altri che ora non ricordo. Successivamente si riorganizzarono e il 24 dicembre, insieme ad altri venti combattenti, salgono sulla Sierra Maestra. Nel frattempo Mongo Perez e Faustino furono incaricati da Fidel di prendere contatto con Frank Pais per riattivare il M26/7.

Quando avvenne il primo scontro armato de La Plata, Camilo si distinse come un gran combattente. Mano a mano che l’Esercito Ribelle si organizzava, Camilo era sempre all’avanguardia del suo gruppo, in esplorazione. Nonostante non avesse un gran fisico, riuscì ad adattarsi bene alla vita di montagna, come fece lo stesso Che, nonostante la malattia di cui soffriva. Con l’arrivo dei rinforzi inviati da Frank Pais, l’Esercito Ribelle si ingrandì e diversi furono gli scontri e le battaglie vinte. Camilo era già il SEÑOR DE LA VANGUARDIA.

D: Perché questo soprannome?

R: Glielo ha dato il Che. Nella lingua spagnola la parola Señor stà ad indicare un grand’uomo, un titolo nobiliare, di grandezza, di superiorità. Quando il Che dedica a Camilo il suo libro GUERRA DI GUERRIGLIA, lo ricorda con questo soprannome che Camilo si era conquistato.

D: Il Che è l’eroe di Santa Clara e Camilo l’eroe di Yaguahay…

R: Per prima cosa ti posso dire che Camilo aveva il compito di arrivare fino a Pinar del Rio, ma per problemi politici che si crearono in quel momento, Fidel ordinò a Camilo di rimanere nella zona denominata del Segundo Frente. Camilo iniziò le sue operazioni nella parte nord di Las Villas; il 15 ottobre del 1958 iniziarono gli scontri in questa zona, in meno di due settimane gli uomini di Camilo confiscarono moltissime armi pesanti al nemico. Con queste azioni favorì il lavoro delle organizzazioni locali, come quelle del Partito Comunista e di altre vicine a noi nella ricerca delle armi. Camilo aspettò gli ordini per proseguire, il Che gli disse di non essere avventato nelle scelte perché ancora non si sapeva l’esito della battaglia di Santa Clara.

La fuga di Batista, il 1° gennaio del 1959, non era prevista. Pensavamo ad una resistenza nei pressi di Matanzas e pensavamo che avrebbero cercato di fare la classica divisione come hanno fatto nel Vietnam, in Corea o nello Yemen. La caserma di Yaguahay si arrese nel pomeriggio del 31 dicembre del 1958. Il reggimento di Santa Clara il 1° gennaio del ’59. Quindi Camilo trionfò nella zona nord e il Che nella zona centrale, insieme agli uomini del Direttivo 13 di Marzo e agli uomini del M26/7 comandati in quella zona da Victor Bordon. Preferisco non identificare il Che e Camilo eroi di tal posto o di tal battaglia, sono gli eroi della nostra rivoluzione, come lo sono Fidel, Raul, Juan Almeyda, Ramiro e tanti altri che ci hanno lasciato.

D: Quando hai visto per l’ultima volta Camilo?

R: Ti devo rubare un po’ di tempo per spiegare cosa accadde a Camaguey. In questa città si stava producendo un’azione controrivoluzionaria. Fidel inviò Camilo. In quell’occasione non ci fu nessuno scontro armato. Furono arrestati i rivoltosi. Camilo si fermò alcuni giorni in città, ritornò all’Havana il 25 ottobre. Nel palazzo della rivoluzione si incontrò con Fidel e partecipò ad una grande manifestazione. Il 26 di ottobre tenne un discorso e quella notte andammo insieme alla Bodeguita del Medio, accompagnati dalla ragazza con cui aveva deciso di sposarsi, Paquita Ravasa, con i genitori di lui e suo fratello Osmany.

Il giorno27 lo incontrai allo Stato Maggiore, ricoprivo in quel momento l’incarico di ispettore generale dell’Esercito, sbrigammo una serie di cose. Nel pomeriggio continuammo a lavorare insieme e la sera andammo a mangiare in un posto chiamato Rancho Luna. Mi spiegò nei dettagli quello che era accaduto a Camaguey, delle sporche manovre che volevano fare Huber Matos e gli altri. Quella fu l’ultima volta che lo vidi. Ci separammo ed entrambi ci dirigemmo verso le nostre case. Mi disse che la mattina seguente sarebbe partito e che in serata avrei dovuto essere reperibile per andarlo a prendere. Successe purtroppo tutto quello che sappiamo.

D: Veniamo alla scomparsa.

R: Quando in serata ci si accorse del mancato rientro, Osmany, che era aiutante capitano del fratello, e Manolo Espinosa, una delle guardie del corpo di Camilo, non diedero troppa importanza a questo ritardo. Camilo era solito fare un po’ a modo suo e non avevamo ancora un’organizzazione adeguata. Però quella volta aveva deciso di rientrare subito all’Havana. Il 29 di ottobre Fidel Castro mi mandò a chiamare alla caserma di Ciudad Libertad, dove c’era il comando dell’Aviazione, e mi domandò che notizie avevo di Camilo. Gli risposi che forse è andato a Yaguahay o a Bayamo. Chiamammo tutte queste località e la risposta fu negativa. Indipendentemente dal fatto che egli avrebbe potuto spostarsi in qualsiasi parte del paese senza preavviso, non faceva passare un giorno senza che informasse dove si trovava. I giorni 29 e 30 ottobre del ’59 furono impiegati alla ricerca dei resti del suo Cessna. Uno dei figli più amati dal nostro popolo era scomparso per sempre.

D: Cosa ha perso Cuba, il suo popolo, con la morte di Camilo?

R: Abbiamo perso un vero rivoluzionario, integro, gran patriota, un uomo di assoluta fiducia di Fidel, un uomo che aveva una fede assoluta in Fidel. Quando quest’ultimo lo nominò comandante, Camilo nell’ultima parte della lettera che gli aveva inviato come risposta scriveva così: "smetterò più facilmente di respirare, piuttosto che abbandonare la fedeltà che ho nei tuoi confronti." Il Che disse una cosa sacrosanta: lo perdemmo nel momento in cui avevamo più bisogno di lui. Camilo era un fattore unitario. Una volta gli domandarono fino a dove potesse arrivare la Rivoluzione, rispose che questa aveva solo due strade, Vincere o Morire. Nel pensiero e nel modo di vivere si manifestavano le condizioni eccezionali di un dirigente popolare.

Senza ombra di dubbio ti dico che, dopo Fidel Castro, il dirigente più popolare che sia mai esistito, si chiamava Camilo Cienfuegos. Noi che abbiamo avuto l’onore e la fortuna di conoscerlo, di essere stati ai suoi ordini, di essere stati suoi amici e che abbiamo dedicato il nostro tempo allo studio della sua vita e che continuiamo a farlo, abbiamo perso uno degli uomini più interessanti che ha avuto la Rivoluzione Cubana in tutta la sua storia. Il ruolo di Camilo nella Rivoluzione è stato vitale.

D: Dopo questo bellissimo ricordo di Camilo, voglio passare ad un tema che riguarda la storia del Che in Congo. Come ti spieghi, quello che è successo nella lotta del Guerrigliero Eroico in questo paese africano?

R: Dovresti leggere il mio libro "Il sogno africano del Che". Bisogna partire dal principio che tutti i veri rivoluzionari comunisti devono essere internazionalisti. Il Che è stato l’esempio massimo che noi abbiamo avuto. Prima di lui ci furono compagni che andarono a lottare a Santo Domingo e in quell’occasione non ebbero fortuna. La sconfitta di una battaglia non sempre pregiudica la guerra. Il Che dal primo momento che si unì a Fidel mise una condizione: se avesse trionfato a Cuba non avrebbe dovuto avere nessun impedimento per andare a lottare successivamente nel suo paese, l’Argentina. Le condizioni, come spiego nel libro, che si crearono, non ebbero l’esito sperato.

Il Che stava lottando contro il tempo. Pensava che per un uomo di quarant’anni cominciava ad essere difficile potersi adattare nuovamente alla vita di montagna, alla lotta guerrigliera. Ansioso di compiere quello che si era prefisso, imposta e progetta le condizioni per poter agire. Fidel cerca di persuaderlo, dicendogli che non è la cosa più corretta.. Il Che era una figura conosciuta universalmente, aveva visitato vari paesi africani e si era reso conto dei movimenti di liberazione molto attivi ed era interessato a quanto stava accadendo nel continente nero.

D: Scusami William, si era già verificata la sconfitta della guerriglia di Masetti a Salta in Argentina?

R: Sì, quel movimento faceva parte di un piano per aprire e agevolare il cammino della futura lotta del Che in quel paese. Purtroppo non fu il solo movimento ad essere sconfitto; ci fu anche quello in Perù guidato da Luis de la Fuente Useda. In queste guerriglie il nemico riuscì ad infiltrare i suoi uomini e di conseguenza queste esperienze non ebbero l’esito che ci aspettavamo. Ma torniamo all’Africa, Fidel accettò la partenza del Che, come responsabile della missione del Congo. Il Che era l’unico bianco della spedizione.

D: L’Africa e i congolesi…

R: Il continente africano ha 500 anni di ritardo rispetto a noi latinoamericani, mille rispetto all’Europa. Qui il nemico è stato capace di far germinare il seme della legge DIVIDI ET IMPERA. Anche oggi, il livello di istruzione, di educazione e di sistema sanitario è quasi nullo. Le guerre fra tribù sono all’ordine del giorno. In quell’epoca il Congo era pieno di analfabeti ed esistevano all’incirca 50 etnie. Il movimento congolese aveva raggiunto alcuni traguardi, ma la cosa che più ci preoccupava era questa forte divisione al loro interno. Rispettosamente criticammo alcune impressioni che aveva il Che su questi combattenti, ma andammo avanti sulla strada scelta dal comandante. Quando ci presentammo in terra africana, il movimento congolese si spaventò della nostra presenza. Non esisteva un leader che li dirigesse, un esempio, per questo motivo non esisteva una linea di condotta. C’era un giovane militare di nome Kabila - il Che scrisse nel suo diario delle note negative su questo compagno - però lasciò intendere che era l’unico che aveva qualche possibilità di divenire un buon dirigente se avesse dato l’esempio nella lotta. Il Che non si sbagliò.

Kabila ha avuto il merito fino ad oggi di non essere mai passato con il nemico ed è sempre stato un buon amico di Cuba. La maggior parte dei dirigenti del movimento congolese si comportarono come dei miserabili, passando al nemico. Laurent Kabila non solo ha dimostrato di essere nostro amico, ma ha appoggiato molte cause giuste in Africa. Forse voi italiani non conoscete bene questo continente come noi altri. Lì ci sono i nostri morti, l’aiuto che abbiamo dato a molti paesi africani era disinteressato, non esigevamo il contrario, quello che volevamo era un atteggiamento rivoluzionario. Ho evidenziato nel mio libro che quella fu una scelta ben fatta e me ne assumo le responsabilità. Il Che inizia il suo Diario dicendo che è la storia di una sconfitta, non sono d’accordo. Che cos’è una sconfitta? Io la concepisco in questo modo: decido di fare una cosa e poi sbaglio. Però se tu mi chiedi aiuto e io te lo do, ti porto i migliori uomini disposti a lottare, mentre i dirigenti locali perdono tempo ad ubriacarsi, spendono i nostri soldi a prostitute, è chiaro che non può essere mia la colpa se poi si viene sconfitti.

Possiamo riconoscere che ci fu un errore di valutazione della maturità di questo movimento. Bisogna conoscere il carattere del Che, la sua morale rivoluzionaria. Per lui non aver raggiunto determinati scopi, determinati obiettivi, era l’equivalente di una sconfitta. Credo che nessuno avrebbe potuto trionfare in quelle condizioni. Quello che fece, fu ben fatto. Voleva rimanere nel Congo, se così fosse stato, lo avrebbero ucciso perché non c’erano le condizioni per lottare. Il Che soffrì molto le incomprensioni e le incapacità dei dirigenti e dei combattenti congolesi. Oggi nel Congo qualcosa è cambiato. Mobutu è morto e Kabila dirige il paese sicuramente con un sistema migliore di trenta anni fa.

D: Quando hai visto l’ultima volta il Comandante Che Guevara?

R: L’ho incontrato al Ministero dell’Industria. Stavo frequentando la Scuola Superiore di Guerra e ogni 15 giorni dovevo chiamarlo al telefono per chiedergli se potevo andare a fargli visita. Parlammo e ci scambiammo dati e opinioni su quanto stavamo facendo. Era chiaro che non poteva dirmi tutto, non mi disse che sarebbe partito per una nuova missione. La nostra amicizia si approfondì dopo la morte di Camilo. Dal punto di vista militare sono stato a capo dell’Esercito Centrale, secondo la divisione in guerra del paese, al Che corrispondeva la zona centrale e quindi sono stato ai suoi ordini per parecchio tempo.

D: Che ricordo ti è rimasto?

R: Come ti ho detto al principio, era un uomo universale, da tener presente in tutte le manifestazioni, uomo integro, rivoluzionario vero. Ha dato l’esempio che l’imperialismo va combattuto in tutti i suoi aspetti e su tutti i fronti. Che l’unica forma per raggiungere la giustizia sociale era l’installazione di un governo rivoluzionario dove non esistesse il dominio dell’uomo sull’uomo. Il Che è il martire rappresentativo del vero rivoluzionario, Fidel è il dirigente più rappresentativo del rivoluzionario vero presente oggi sul pianeta.

D: Negli ultimi anni sono state pubblicate molte biografie sul Guerrigliero Eroico, che opinione hai di questi testi? E’ vero che stai preparando una biografia composta da cinque volumi sul Che? Puoi anticiparmi qualcosa?

R: Le ho lette quasi tutte, sia quelle scritte da amici veri, che quelle scritte da coloro che si professano tali e poi cercano la macchia nel sole. Tutte queste biografie sono piene di falsità e di ingiurie sulla figura del Che, di Fidel e della Rivoluzione Cubana. Hanno utilizzato il Che come un personaggio per fare soldi, come una figura commerciale, mi da fastidio persino vedere nei nostri negozi il commercio della sua immagine stampata sulle t-shirt. Ci vediamo costretti a farlo perché gli altri lo fanno. Nel 1997 hanno pubblicato cinque biografie. Ho letto quella di quel farabutto di Castaneda, un miserabile, vigliacco, codardo e bugiardo. Quella dell’oppurtunista Paco Ignacio Taibo, quella del nemico e falso storico americano Anderson, quella del francese Kalfon, un altro bugiardo. Ho letto quelle scritte anteriormente, quella fatta dagli argentini era piena di bugie. Quella di Ricardo Rojo, un miserabile. Non capisco, si considerava un buon amico del Che e poi ha scritto porcherie. Inventò l’esistenza di una lettera mai consegnata, tra la madre del Che, signora Celia, e suo figlio. La inventò di sana pianta. Non mi ha mai voluto incontrare quando sono stato in Argentina, lo avrei smentito pubblicamente.Per quanta riguarda il mio lavoro, due libri già sono stati pubblicati; il primo parte dalla nascita del Che fino al suo arrivo a Cuba. E’ quello che mi piace di più perché spiego come Ernesto Guevara diventa rivoluzionario e comunista. Il quarto, già pubblicato, è la storia dell’esperienza in Africa di cui ti ho parlato prima. Ha ricevuto il premio Casa de las Americas. Il secondo raccoglie tutta la sua traiettoria guerrigliera a Cuba fino al trionfo della Rivoluzione. Il terzo parla del Che come statista e dirigente, dal 1959 fino alla partenza per il Congo. L’ultimo narra l’esperienza boliviana. L’ho terminato e lo sto rivedendo. Per poterlo concludere dovrei fare un viaggio in quel paese per verificare alcuni elementi che ancora mi mancano.

D: Cosa hai provato quando hanno scoperto i resti del Che e degli altri compagni e li hanno portati ha Cuba?

R: Inizialmente provai grande tristezza, non si può essere soddisfatti quando trovi i resti di compagni caduti. Però siamo orgogliosi che riposino a Cuba. Inizialmente pensavo che forse sarebbe stato meglio lasciarli lì dove erano caduti. Poi ripensandoci, la situazione in Bolivia non era idonea per ospitarli. Il Che e gli altri compagni dovevano riposare dove c’era la sicurezza che non venissero profanati e sfruttati. Il luogo dove possono avere il rispetto e la devozione giusta è Cuba.

D: William, un ultima domanda. Perché quarant’anni di Embargo non hanno sconfitto la Rivoluzione Cubana?

R: Perché questa è una vera rivoluzione. Per poterla sconfiggere devono annientare il nostro popolo. Fino a quando ci sarà anche un solo uomo disposto a difenderla, questo darà battaglia. E’ difficile annientare una rivoluzione quando questa è autentica. La rivoluzione che iniziò nel 1917 è andata degenerando ed ha smesso di essere vera. La prova sta nel fatto che di tanti militanti comunisti che c’erano nel partito nessuno è stato capace di ribellarsi per difendere quell’esperienza. Io sono ottimista, come alunno di Fidel, penso che prima di morire vedrò di nuovo la lotta in quei paesi per una vera rivoluzione sociale. Per il movimento comunista mondiale la caduta dei paesi dell’Est è stato un colpo durissimo, però non mortale, come hanno voluto far credere. Noi, prodotto di una rivoluzione vera, con dirigenti come Fidel, con un gran partito comunista alle spalle, siamo sopravvissuti e abbiamo dimostrato di potercela fare anche da soli contro il nemico più potente della terra, gli USA. Abbiamo molte difficoltà, però non moriamo di fame.

Abbiamo molte cose assicurate, che i cittadini del cosiddetto primo mondo non hanno. Resistiamo perchè siamo un popolo di indole rivoluzionaria e che si è rafforzato ancora di più con la guida del Comandante en Jefe. Abbiamo fiducia e siamo orgogliosi della nostra gioventù. Moltissimi giovani medici volontari cubani li puoi trovare in molti paesi del Terzo Mondo. La nostra forza sono i giovani che hanno lottato in Angola, in Eritrea ed in Namibia. Non le quattro jineteras o jineteros che uno incontra per strada, nessuno di questi. In qualsiasi angolo di una grande città del mondo ci sono più prostitute che in tutta Cuba. Poi arrivano i giornalisti e dicono che noi abbiamo questo, abbiamo quest’altro e giù a scrivere porcherie sul nostro paese. Ma cosa vengono a cercare la macchia nel sole? Non siamo puri, siamo esseri umani. Ma la purezza di questa rivoluzione è al di sopra della norma, al di sopra del 90%. Per questo motivo la Rivoluzione ha resistito per più di quarant’anni e continuerà a resistere tutto il tempo necessario di fronte all’imperialismo degli Stati Uniti d’America.

NOTE BIOGRAFICHE

William Galvez nasce ad Holguin il 21 ottobre 1933. Partecipa alle lotte studentesche in diverse organizzazioni. Nel 1953 entra a far parte del M26/7. Partecipa agli episodi del 30 Novembre del 1955 a Santiago di Cuba. Si unisce all’Esercito Ribelle nella Sierra Maestra. Partecipa all’invasione verso occidente guidata dal Che e da Camilo Cienfuegos, con il grado di capitano. Termina la guerra di liberazione nella colonna di Camilo con il grado di comandante di una colonna. Oggi è un generale della riserva delle FAR, militante del PCC, laureato in Scienze Sociali, ha realizzato diverse missioni internazionaliste. E’ autore di diversi libri di carattere storico: CAMILO, SEÑOR DE LA VANGUARDIA, SALIDA 19, FRANK PAIS ENTRE EL SOL Y LA MONTAÑA, EL JOVEN CAMILO, CHE DEPORTISTA e EL SUEÑO AFRICANO DEL CHE.

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Yanara Guayasamín

Intervista alla regista cinematografica ecuadoregna Yanara Guayasamín

di S. Russo

D: Prima di cominciare questa intervista voglio ringraziare l’Associazione Culturale “Nuovi Orizzonti Latini” organizzatrice del VI Incontro con il Cinema Latinoamericano, iniziato sabato 26 settembre e terminato mercoledì 30 settembre 2009, per averci offerto la possibilità di incontrare Yanara Guayasamín, regista cinematografica ecuadoregna, figlia di Oswaldo Guayasamín, grande pittore e scultore scomparso nel 1999, caro amico del Comandante Fidel Castro e di Cuba. In occasione del festival, abbiamo potuto vedere il bellissimo film di Yanara che si chiama “Cuba el valor de una utopía”. Vorrei subito chiedere a Yanara di parlarci del suo film e del perché di questo titolo.

R: Questo film è un viaggio in quella che è stata la fase embrionale della Rivoluzione, attraverso testimonianze della generazione che l’ha creata. Questi personaggi, di diversa provenienza, professione ed estrazione sociale, mi hanno dato la possibilità di parlare della prima generazione rivoluzionaria. Credo sia questo il tema centrale del film, la sua filosofia. Riguardo al titolo, la parola “valor” in spagnolo ha due significati essenziali; uno inteso come costo, ed essere coerenti comporta un costo ed io credo che i personaggi del mio film siano persone coerenti. L’altro inteso come coraggio, interezza, forza. Per mantenere la coerenza nel tempo occorre appunto “valor”, malgrado le difficoltà, le carenze, malgrado tutto.

D: Prima della proiezione del film, nel tuo intervento di presentazione, hai detto che “Cuba el valor de una utopía” farà parte di una trilogia. Vuoi parlarci di questo progetto?

R: Credo di avere già un 30% del materiale relativo alla seconda parte della trilogia, che in realtà potrei usare anche per la terza ed ultima parte. Ho moltissime ore di ripresa, davvero tante ancora inedite e tutte molto interessanti sia dal punto di vista temporale che della qualità. Ho molto materiale che racconta il passato, ma anche il presente. Così potrò lavorare in modo da creare una stretta connessione, appunto tra passato e presente. Ho anche le riprese del ritratto che mio padre fece a Fidel.

Yanara Guayasamín
Yanara Guayasamín

D: Dal punto di vista cronologico, come pensi di impostare la seconda e poi anche la terza parte di questa trilogia?

R: Diciamo che già il film “Cuba, el valor de una utopia”, è composto da due parti; la prima su come nasce la Rivoluzione fino al suo trionfo, praticamente un filo conduttore che io definisco storico, perché segue una cronologia lineare che ci racconta la storia di Cuba. Poi, passando per alcuni momenti fondamentali della Rivoluzione, vi è un salto fino al presente. Ma questo salto, questa seconda parte, è stato solo funzionale alla conclusione del film, perché non è possibile parlare di un’epoca così remota senza sapere cosa poi accade nel presente. Ho dovuto quindi dare una continuità fino ai giorni nostri. Ma in realtà quando uscirà la trilogia, la suddivisione delle tappe della Rivoluzione sarà diversa. 

D: Vorrei sapere, ora che dovrai lavorare sulla seconda e terza parte della trilogia, qual è la tua posizione sia sentimentale, sia razionale nei confronti della Rivoluzione. Come vedi la Rivoluzione oggi, nel presente?

R: Ti dirò che a questo punto della mia vita, quello che prediligo è il paesaggio umano. Quello che m’interessa davvero e che mi piace sono le persone, e le persone, come credo anche la Rivoluzione, sono perfettibili, sono buone, cattive, contraddittorie, c’è un po’ di tutto.

D: In tutti questi anni durante i quali hai avuto la possibilità di conoscere l’Isola, c’è stato anche un percorso tuo interiore, un modo forse diverso, man mano che passava il tempo, di percepire, sentire e di intendere il processo rivoluzionario?

R: E' difficile rispondere a questa domanda. Fino a due mesi fa ho lavorato intensamente sull’uscita del mio film, tutti i giorni, 12 ore al giorno. Mi sento come una madre che ha appena partorito. Mi sento assolutamente esaurita. Naturalmente questa è una condizione che non riguarda solo Cuba, mi succede tutte le volte che devo lavorare sull’uscita di un mio film. Comunque posso dirti che quello che sento è come se i cubani oggi volessero una direzione più chiara per il loro futuro. Naturalmente questa situazione dipende moltissimo dal blocco, tutti vorrebbero farla finita con questa storia, ma credo che dipenda anche da dinamiche interne al paese. Io non sono un’esperta in politica, ma credo che la Rivoluzione senta la necessità di rivedere tutte quelle strutture che ritiene siano obsolete, dunque inutili

D: Altri progetti per il tuo futuro?

R: Mi piacerebbe dare vita ad una scuola di cinema popolare in Ecuador. Una scuola di cinema che dia la possibilità di studiare ai giovani che si affacciano al mondo del cinema e che non hanno i mezzi per farlo, perché la carriera cinematografica è davvero molto cara. Io vorrei creare una scuola professionale per tutti gli addetti ai lavori, in cui per esempio un regista se vuole può anche diventare cameraman e viceversa. Una specie di “banca del baratto” in cui per esempio uno sceneggiatore che vuole imparare il mestiere del montaggio, a sua volta, invece di pagare in danaro la specializzazione, organizzerà un corso di sceneggiatura e così via. Diciamo un villaggio dove i suoi “abitanti” lavorino nel cinema e per il cinema. In questo senso mi piace molto l’idea di San Antonio de los Baños vicino all’Avana, dove sorge la Scuola Internazionale di Cinema e Televisione.

 

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